da qualche tempo mi sono trasferito qui:

brunopompa.eu


Tiro fuori dalla tasca di un jeans un flyer tutto spiegazzato e sudato, prima di deporre il capo in lavatrice. Il flyer del primo di dieci appuntamenti celebrativi di “Playhouse“. Una hot night bolognese che ha visto la partecipazione di numerosissimi artisti internazionali. 01-10-10. Una data binaria. L’ospite che apre questa serie di eventi è Josh Wink: ottima scelta. Bè, ho preso appunti, ci andrò. Tra l’altro la successiva si terrà al Cassero.

Dalle tasche ho tirato fuori anche un programma/mappa della festa dell’Unità di Bologna. Puzza di fritto. Meglio cestinare.

Tra gli acqusti fatti a Parco Nord quest’anno c’è pure questo “Prehistoric” di Marc Bolan. Una collezione di rarità registrate tra il 1966 e il 1967. E adesso me lo ascolto. Volume basso, sono le 4 del mattino.

Ah dimenticavo, il jeans era sulla scrivania. Ebbene si, la sto di nuovo mettendo in ordine. Stavolta cercherò di concentrarmi sulle piccole cose, per dare un senso maggiore di realtà del caos in cui opero quotidianamente.

Piccole buste, per piccoli acquisti: Feltrinelli, Ricordi, MelbookStore, Coin. Preludio di novità librarie, musicali e cinematografiche. Cestino anche queste piccole shopping bag.

Tra la letteratura grigia da club c’è anche un programma del Link: Rolando, Pasta Boys, Craig Richards, Paul Kalkbrenner, etc. Mi affiderò ai richiami futuri.

L’avviso aperto del ritiro del congedo di mio fratello, appena trasferitosi in Cile. Questa mi sa un po’ di ciliegina sulla torta. Una torta durata moltissimi anni e moltissime sofferenze.

Essendo iscritto all’ANPI, ricevo la rivista mensile direttamente a casa. Si chiama “Resistenza“.

Aggiungo alla collezione di ricevute del taxi una dozzina di tratte da/per svariate destinazioni.

Un biglietto incollato alla porta, scritto a mano dalla signora del piano di sotto, mi avvisa che la struttura portante del bagno è fatiscente. Verrà sostituita prima o poi e ci avviserà. Ma nel frattempo ci prega di andare in bagno uno alla volta (come se ci entrasse più di una persona anche volendo), di non saltare e di non introdurre pesi. Il proprietario dell’appartamento sarà avvisato. Biglietto da conservare: racconta da solo più di molti ricordi.

Accanto una giocata non vincente al Superenalotto. Forbici.

Il numero estivo di Internazionale dedicato ai viaggi. Permette facilmente di spaziare in meandri suggestivi rimanendo comodamente nel nulla della propria stasi cittadina. Il riempimento di un vuoto vacanziero.

Un post-it mi segnala un articolo sul Venerdì di Repubblica in cui si parla della vita mondana berlinese. E si dice anche che nei quartieri più alla moda il mq costa 1600 euro. In pratica con quel che pago d’affitto potrei comprarmi un metro quadrato ogni due mesi.

Raccolgo i libri sparsi, aperti, chiusi, con o senza segni, stratificati sulla scrivania. Sono state le più recenti consultazioni. Non rimetterli a posto vuol dire voler tornare sull’argomento. Li elenco senza commenti.

– Lev Manovich “Software Culture” – Olivares – 2010

– Franco Berardi “La fabbrica dell’infelicità” – Derive Approdi – 2000

– Salvatore Natoli “Stare al mondo” – Feltrinelli – 2008

– Everett C. Hughes “Lo sguardo sociologico” – il Mulino – 2010

– a cura di Bernardo Parrella “Gens Electrica” – Apogeo – 1998

– Claudio Coccoluto e Pierfrancesco Pacoda “Io, Dj” – Einaudi – 2007

Mi piace tenere sulla libreria questi raggruppamenti nati dalle cronologiche consultazioni. Mi aiuta a mantenere l’attenzione su temi e pensieri specifici. A volte dice più una bibliografia di quanto invece riusciamo ad elaborare da essa.

Stessa raccolta di materiale sparso. Stavolta dvd. Tutti ancora immacolati, nuovi, incartati.

Amiche per l’Abruzzo – concerto

– Michael Jackson “This is it

Julie & Julia – film

Wholphin 6 – antologia di materiali audiovisivi

Il lago dei cigni – balletto

Se finora sono rimasti incartati ci sarà un perché.

Ecco cosa rendeva tutto precario nell’impilare la carta e tutto il resto: in basso c’era una ciabatta ikea a 6 prese di corrente. Nuova. Utile.

Un altro post-it mi segnala la recensione dell’ultimo libro di Jonathan Franzen, appena uscito negli USA. E’ la storia di una famiglia infelice. il titolo è “Freedom“. Ho già letto almeno quattro recensioni di questo romanzo. Non ho ancora mai letto nulla di questo autore. Mi chiedo se è il caso di avvicinarmi. Ma la lista dei desiderata continua a crescere. Attenderò che altri segnali ed entusiasmi critici mi convincano a prendere finalmente in mano mr. correzioni. Depongo la recensione insieme alla rivista nell’apposita pila.

In così pochi metri quadri non posso continuare ad accumulare all’infinito. La carta pesa. E nonostante il fascino che emana ogni volta che la si prende in mano, bisogna ammettere che ha una certa complessità intrinseca nell’essere collocata per poi essere opportunamente ritrovata. La svolta digitale tarda a farsi largo tra gli accumuli di casa mia. Eppure siamo nel 2010. E uso la connessione dal 1991. Non son bastati 20 anni a convincermi che la strada è quella.

Breve pausa pubblicitaria.

Un mega quadernone Monochrome mi aiuterà a tenere insieme tutti gli appunti presi in direttivo: non che servano a chissà cosa, ma spesso dimentico i dettagli delle decisioni prese. Un punto di riferimento non guasta. Vediamo quanto dura questo proposito.

Inutile prestare attenzione ai quotidiani. La maggior parte di essi sono del mese di agosto. A meno che non si voglia aprire una sezione dedicata alla fantascienza e all’assurdo, possono tranquillamente finire al macero.

Da qualche tempo una nuova tipologia di fogli svolazza sulla mia scrivania. Sono le prenotazioni e i pagamenti e le prescrizioni del settore sanitario. Ho iniziato, seppur lentamente, a curarmi. Si, a prendermi cura di piccole cose che ho sempre tralasciato. Al momento dermatologia e odontoiatria. Va creata una carpetta: so che dopo i 40 è necessario uno spazio dedicato per recupero immediato di info, dati e scontrini.

Altro genere sparso è quello della rendicontazione. Un magma costituito da ricevute, scontrini, prove d’acquisto, stampate di intere videate per acquisti fatti online, voli, hotel, cene, materiali vari, fatture etc. Tutto da mettere in ordine e consegnare al tesoriere per i rimborsi. Nel mio lavoro ho un budget dedicato alle spese ordinarie. Ma senza rendicontazioni. Addio rimborsi. Ed è successo molte volte. Questo aspetto mi sprona un po’ nella sistemazione periodica della scrivania. Ma sono sicuro di essere venuto a capo di questo capitolo solo quando starò passando la spugnetta sulla superficie.

Sono arrivato alla minuteria. Piccole cose che raccontano momenti di ogni tipo.

Numerosissime free-drink. Di diversi locali. In pratica una lunga serie di cocktail non consumati.

Alcune chiavette usb. Non si possono catalogare, nè buttare, nè archiviare, bisogna prima sbirciare cosa contengono. Ormai la promozione passa anche da lì.

La quantità di riviste è imabarazzante. Non posso spendere parole per ognuna di loro. Mi limito ad impilarle e posarle sul pavimento. Domani durante la colazione deciderò quale merita nuova attenzione e quale no.

Sim card. Ne ho messa fuori uso una. Ne ho comprata una nuova per sostituirla. Ho comprato anche due nuovi telefoni, uno UMTS per avere internet in tasca e un numero privato e uno per rispondere al flusso di squilli che il Cassero mi dirotta continuamente. Incluso nei telefoni altre nuove schede sim. Mai avuto così tanti numeri di telefono. Inutili.

Tabacco sciolto, pacchetti di sigarette, pacchetti di fazzoletti, accendini, calcolatrici, banconote, macchinette fotografiche, penne, cartoline, manuali utente, tessere raccolta punti, pieghevoli menu pizza a domicilio, confezione con tre calzini nuovi, insetticida spry, guida di Parigi con piantina della città, spiccioli, righello, clessidra, campioncino profumo, crema per le mani, cd con materiali didattici del corso di fund raising per la cultura, stuzzicadenti, cataloghi mostre e rassegne varie, curriculum di artisti, diapositive, prove di stampa, agendine, bloc notes, fotocopie testi ed etichette staccate a vestiti nuovi.

Polvere, cenere, briciole, peli, capelli, ciglia, falene morte e macchie.

E l’immancabile tazza di caffè.


MY DESKTOP (6)

10Lug10
Nel 2008 Paolo Conte ha pubblicato un album dal titolo “Psiche”. Sto accompagnando con queste musiche la periodica sistemazione della scrivania. Era da tanto che non lo facevo. Strati e residui di vita vissuta. Tracce di ogni tipo. Costante indecisione: tenere o buttare. Se si tiene, dove si mette. Il mio archivio fisico inizia ad essere troppo pieno per essere consultato agilmente. La mia brama catalogatrice sta per sperimentare un limite. Ho iniziato a portare al Cassero mucchietti di riviste: annate de L’Uomo Vogue, di Flash Art, di svariate testate musicali. Pochi sguardi interessati. Forse era meglio una spedizione in cantina. O in soffitta, dove ho stivato quattro scatoloni di libri di Paolo quando ha deciso di lasciare l’Italia per la Tunisia.
Nel frattempo Paolo Conte ha cantato l’ultimo brano, “Berlino”. Mentre spolvero alcune riviste, concentrandomi sulla ricerca di alcuni versi che avevo letto qualche mese fa, metto su un CD acquistato al Sonar: Caribou “Swim”. Il live l’ho perso perché l’area in cui si svolgeva era stracolma di gente. Sono a malapena riuscito a prendere una birretta e rimanere a margine per ascoltare il brano di chiusura. Bisogna ammettere che Barcellona, il sole e la particolare atmosfera di quel festival rendevano tutto più magico di questo semplice supporto inserito nel mio Mac.
Ecco i versi:
“Schèi ne la man, chissà,
se devo conservarli;
ma quel che xé de l’anema
se perde, se no se dà.”
(Giacomo Noventa)
Una breve intervista sul sito della Rai, nella sezione dedicata ai libri, sintetizza splendidamente chi era costui. Del suo scrivere in dialetto veneto dice: “parché scrivo in dialeto …? / Dante, Petrarca e quel dai Diese Giorni / Gà pur scrito in toscan. // Seguo l’esempio”.
Da sette anni convivo col mio compagno veneto: so benissimo che rapporto viscerale ha quella gente con il dialetto, e lo apprezzo. Inizio anche a capirlo.
Parlavo di Sonar prima, e sulla scrivania galleggiano a diversi livelli di stratificazione flyer, programmi, riviste, depliant, inviti, gadget, ricevute, libretti. L’entusiasmo con cui li si porta a casa è ben diverso da quello con cui li si riguarda a distanza di un mesetto. Bene, ho fatto un po’ di pulizia. Ho conservato feticci. Devo ammettere che Barcellona è la città spagnola col maggior numero di stimoli editoriali. Ogni volta che ci vado rimango sbalordito dalla cura che riservano a operazioni editoriali anche effimere o di scarso valore. Sono dei maniaci della cura tipografica. Ma anche liberi creatori che danno spazio a tutte le visioni provenienti da qualsiasi laboratorio degno di nota. Ho acquistato solo due riviste. La prima l’ho proprio cercata con cura: Apartamento. Una rivista in formato libro che contiene percorsi visivi, molto suggestivi, all’interno di abitazioni al limite della normalità. Una finestra così sugli interni privati non la vedevo dai tempi di Nest.
L’altra invece si chiama Rojo. E ogni anno ne compro una copia. Qui siamo nell’ambito dell’illustrazione pura. Nessun testo. Nemmeno la presentazione degli artisti in rassegna. Impaginazione a filo di pagina. Qualche link alla fine. Uno sguardo veloce sulle nuove tendenze della grafica. Come non prestargli attenzione?! Peccato per il costo.

The New York Reviews of Books pubblica la recensione di una biografia di Arthur Koestler. Un uomo che si è formato in una scuola materna sperimentale di Budapest, figlio di una madre paziente di Freud, che è stato segretario personale del leader del movimento sionista Vladimir Jabotinsky, che ha viaggiato da giovane in Russia come simpatizzante comunista, che ha combattuto la guerra civile spagnola, che ha incontrato W. H. Auden il poeta durante uno stravagante party a Valencia, che condusse durante la guerra mondiale un’esistenza rocambolesca in perenne fuga dalla Gestapo, che si fece dare le pillole per suicidarsi in caso di cattura da Walter Benjamin e che, tra l’altro, le ingurgitò quando si vide in trappola a Lisbona, ma non morì. Un uomo che ha pranzato con Thomas Mann, che ha bevuto con Dylan Thomas, che ha fatto amicizia con George Orwell, che ha flirtato con Mary McCarthy e che ha condiviso un appartamento a Londra con Cyril Connolly. Arthur Koestler fu detenuto in un campo di prigionia e fu rilasciato grazie all’intervento di Harold Nicholson e di Noël Coward.

Negli anni ’50 contribuì alla fondazione del Congress for Cultural Freedom, insieme a Mel Lasky e Sidnay Hook. Negli anni ’60 prese un LSD con Timothy Leary. Negli anni ’70 dava lezioni che impressionarono il giovane Salman Rushdie. In poche parole ha incontrato tutti i più importanti intellettuali del ‘900. Era affascinato da ogni moda filosofica della sua epoca. Nonostante in gioventù avesse sostenuto l’uso della violenza per realizzare l’utopia comunista, e lo sostenne anche combattendo, quando la sua visione del mondo cambiò, si rivoltò contro i suoi amici. D’altronde è conosciuto come un anti-comunista. Questo aspetto è ben delineato nel suo più importante libro “Buio a mezzogiorno”, un resoconto fittizio di un interrogatorio ad un membro anonimo del partito comunista. Il suo sionismo revisionista è reso noto dal testo “La Tredicesima Tribù” in cui sostiene che i moderni ebrei europei discendono dall’Asia Centrale dei Cazari, e non dagli ebrei che vivevano nell’antichità in Palestina. Questa è una tesi molto popolare tra i nemici del sionismo. Contro ogni argomentazione razionale si attaccò moltissimo alla sua passione per la telepatia, a tal punto che donò il suo patrimonio per finanziare una cattedra di parapsicologia.

Arthur Koestler visse passioni estreme. In balia di Jabotinsky, del suo analista e di una straordinaria serie di donne. Era consumato da un odio violento, innanzitutto verso sua madre, e perseguitò molte vendette contro colleghi scrittori. Era geloso di Hemingway e detestava Bertran Russell. Ebbe come rivali Edmund Wilson e svariati ex- mariti. Offese la maggior parte delle persone che conosceva, ma soltanto dopo essersi ubriacato con loro.

A proposito del suo modo preferito di divertirsi, si racconta in questa biografia di una serata trascorsa in vari locali insieme a Jean-Paul Sartre, Simone de Beauvoir, Albert Camus e sua moglie Francine. L’allegra combriccola dopo aver mangiato, bevuto e ballato tutta notte si ritrova in lacrime sul bordo della Senna a piangere della condizione umana minacciando di buttarsi tutti nel fiume. E’ difficile oggi immaginarsi tre intellettuali di quella portata ridotti in quelle condizioni.

Di un personaggio così oggi si direbbe che è un alcolizzato. E lo erano infatti anche molte persone che lo circondavano. Bisogna aggiungere che era un predatore sessuale, palesemente infedele alle sue tre mogli e che aveva anche oltraggiosamente flirtato con le mogli di altri uomini. E qualche giorno dopo quella seratina Koestler andò a letto con Simone de Beauvoir. Una precedente biografia curata da David Cesarani definisce Koestler come uno stupratore seriale. E utilizza la storia della moglie del leader laburista Michael Foot come prova. In realtà quella vicenda fu molto ambigua, e viene ricordata in modo diverso dai vari protagonisti. In ogni caso anche Scammel, l’autore di questo ultimo resoconto della vita di Arthur Koestler, sostiene che se anche la parola stupro non è quella giusta, la sua vita sessuale sono da considerarsi a assolutamente oltre l’accettabile e probabilmente ai limiti della legalità.

Koestler fu anche molto critico nei confronti del mondo accademico. Non gli piaceva il mercato delle lezioni e delle conferenze. Non amava molto l’insegnamento. Non voleva essere qualificato come scrittore e giornalista. Nella vita ha scritto libri di filosofia, psicologia, storia e scienza. E’ quello che un tempo si definiva intellettuale. Ovvero colui che è in grado di esprimersi in molti settori in cui non si aveva alcuna competenza professionale. Se al tempo questo approccio era accettabile, oggi risulta totalmente amatoriale. E questo è il motivo per cui molti dei suoi libri sono ormai considerati semplici curiosità, come tutte le varie teorie della cospirazione. E sono ormai tutti fuori catalogo.

Il cambiamento più importante della sua vita è di carattere politico. Il passaggio dal comunismo all’anti-comunismo. Qualcosa nel mondo era cambiato. Oggi, nonostante un crollo come quello di Lehman-Brothers, nell’autunno del 2008, nessuno si è sollevato per rovesciare gli sfruttatori borghesi capitalisti. Al tempo qualcuno lo avrebbe fatto. Il contesto in cui operavano Koestler, Sartre e Camus oggi è completamente cambiato. L’anti-comunismo di Koestler finì per allontanarlo dai suoi amici. Non si parlavano più. “Buio a mezzogiorno” diventò un bestseller internazionale. Sartre prese le distanze dall’autore perché pubblicizzando i crimini del regime repressivo sovietico, si mettava al servizio dell’imperialismo americano e bloccava il progresso della sinistra. Sartre conosceva gli orrori del comunismo sovietico, ma trovava politicamente sconveniente questa confessione. Ha incoraggiato troppo la borghesia.

Il ruolo di Koestler con questo libro fu determinante. La sua critica arrivava da sinistra e non da destra. La sua storia personale costringeva tutti i suoi ex compagni a prendere sul serio questo testo. Per alcuni di loro era un eretico, per altri un traditore o un disertore. Ma per molti fu un eroe. Non è facile immaginarsi nel 1946 o nel 1956 l’esito della guerra fredda. Eppure autori come Orwell, Kravchenko e Koestler hanno contribuito a cambiare il corso della storia sul fronte intellettuale, assicurando la vittoria all’Occidente. Tutta questa rilevanza intellettuale costringe il lettore moderno a doverla controbilanciare con le sue stravaganze e trasgressioni sessuali e personali.

Nonostante il grande successo di “Buio a mezzogiorno” e nonostante l’attività di giornalista con cui ha regalato al mondo i più grandi resoconti sul destino dei rifugiati in tempo di guerra, la reputazione postuma di Koestler è drasticamente compromessa. La sua morte, avvenuta nel 1983 all’età di 77 anni, è finita sotto gli occhi di tutti come un duplice suicidio, condotto in parallelo con la moglie. Una breve lettura della cronaca di questa fine può rendere facilmente l’idea di quanto oblio il mondo ha riservato a questo intellettuale. Il lungo e arduo lavoro compiuto da Scammell con questa biografia è una possibilità concessa a Koestler per riscattarsi con il pubblico contemporaneo.

[traduzione libera]

Koestler: The Literary and Political Odyssey of a Twentieth-Century Skeptic

by Michael Scammell

Random House, 689 pp., $35.00




Qualcosa sta cambiando nelle amministrazioni pubbliche. Uno spettro si aggira per le stanze dei bottoni dei nostri governi locali. Questo spettro si chiama social network. Le piattaforme che da qualche tempo hanno strutturato in modo omogeneo la vita digitale, interattiva e dialogica, di milioni di persone connesse in rete quotidianamente. E in un processo di rinnovamento della comunicazione le amministrazioni pubbliche non possono ignorare questi nuovi strumenti.

Ma prima di arrivare ad avventure così moderne, vorrei provare a dare uno sguardo a ciò che davvero sta cambiando nelle istituzioni locali.

Già da alcuni anni, se non addirittura decenni, le amministrazioni pubbliche stanno cercando di recuperare terreno proprio in seno alle comunità che rappresentano. La crisi della politica, dello Stato Nazione e del welfare state non sono solo luoghi comuni, essi sintetizzano al meglio lo stato delle cose quando pensiamo alla gestione dei beni comuni e soprattutto alla relazione tra cittadini e istituzioni.

Ma in tutti questi anni l’attenzione è stata rivolta a un miglioramento delle tecniche di informazione, in pratica “come rendere più capillare l’accesso alle informazioni prodotte da questo o da quell’altro ente”. Il fulcro dell’azione resta quello di calare le cose dall’alto. Solo che nel frattempo i mutamenti sociali sono stati più veloci di quelli istituzionali. E il quadro d’insieme in cui si tenta di migliorare le cose non è più lo stesso.

Prima ho accennato alla crisi della politica, ma teniamo conto che essa può essere declinata in più modi, per esempio ammettendo un senso di sfiducia generalizzato nelle istituzioni, ma anche riconoscendo un ruolo importante al crollo delle ideologie. Nonostante la situazione poco incoraggiante, tra i cittadini hanno iniziato a diffondersi sempre più nuove culture partecipative e nuove spinte volontaristiche. Laddove il welfare state ha vissuto tragici smantellamenti, i cittadini hanno trovato nuove forme di assistenza, partecipazione e condivisione. In questo la cittadinanza è stata più celere delle amministrazioni pubbliche. Recuperare terreno a questo punto diventerebbe arduo senza l’ausilio di riforme e nuove impostazioni metodologiche. L’era in cui l’opinione pubblica si formava e veniva plasmata nei salotti borghesi pare sia tramontata per sempre. Se oggi si è in presenza di questioni di interesse generale vuol dire che esse possono facilmente essere trattate in infiniti luoghi, soggetti e modalità.

La vera grande trasformazione delle amministrazioni pubbliche è avvenuta con l’introduzione del principio di sussidiarietà (prima con la legge 59/97 e poi con la riforma del Titolo V della Costituzione, legge costituzionale 3/2001). Secondo questo principio sono stati ridefiniti alcuni poteri tra le istituzioni (sussidiarietà istituzionale o verticale) e i cittadini singoli o associati sono stati assunti a svolgere funzioni di interesse pubblico (sussidiarietà sociale o orizzontale). In pratica questo principio introduce un senso di parità e di cooperazione tra le amministrazioni pubbliche e i cittadini. Gestire questo inedito rapporto non è cosa semplice, specie quando gli strumenti per facilitare questo dialogo sono così recenti e in continua evoluzione. Quello che deve affermarsi ora è un nuovo concetto di cittadinanza, che vede il cittadino come partner delle istituzioni nell’attivarsi per l’interesse comune.

Se da una parte è vero che le istituzioni hanno scelto questa strada per contrastare il calo di interesse per la cosa pubblica da parte della cittadinanza, dall’altra tocca sottolineare che già da tempo i cittadini hanno iniziato a utilizzare la rete creando numerosi movimenti e mobilitazioni collettive, e l’amministrazione ha ben capito che forse è il caso di supplire a questo deficit comunicativo.

Quella che si sta diffondendo con le nuove tecnologie può essere definita “la nuova era della cultura partecipativa”. Se ad oggi tutto questo viene percepito come l’embrione di una più ampia rivoluzione, possiamo essere certi del fatto che da qui nasceranno la nuova concezione del “noi”, il futuro senso di appartenenza e un’inedita dimensione comunitaria.


DO UT DES

18Nov09

Ricordo qualche tempo fa un anatema scagliato contro il relativismo. Questa condanna arrivava ovviamente da un balcone dotato di un solido parapetto di incrollabili valori e di ineccepibili condotte. Negare o mettere in discussione delle verità assolute infuoca gli animi di quelle gerarchie preposte a conservare una fede, che io preferisco chiamare potere. Questi signori sanno bene che la cultura, intesa come scienza e conoscenza del mondo e dell’uomo, ha bisogno del dubbio per poter essere coltivata. Non solo, ma necessita anche della verifica empirica, ovvero dell’osservazione e della sperimentazione pratica. Diversamente la cultura esisterebbe si, ma probabilmente si chiamerebbe in un altro modo, per esempio dogma, oppure fede religiosa. E io preferisco aggiungere “un pò noiosa”, che dite?

Ve lo immaginate il percorso dell’uomo nella storia fino ad oggi caratterizzato da un’attitudine statica e poco feconda come quella di dire sempre “si, è vero, vivaddio!”? Sicuramente ci sarebbero state meno morti violente, e il Sole avrebbe continuato a girarci attorno indisturbato. Ma così non è stato. Il dubbio, la curiosità, il confronto, la verifica, la confutazione, la scoperta, l’invenzione e una buona dose di delirio, non necessariamente religioso, ci hanno portato al punto in cui siamo. In molti direbbero: bello schifo!

Credo non sia necessario pensarla come Epicuro per apprezzare i piaceri del caos. Quel caos che ci insegna come siano possibili infiniti disegni unendo infiniti punti. Quel caos che ci permette di incuriosirci al prossimo “scontro” di atomi. Quel caos che rimetterà in discussione una verità che fino a poco tempo fa ci era sembrata così solida, ma che ora è più ragionevole sostituirla con un’altra. In questo caos hanno piena cittadinanza anche le fedi religiose. L’unica differenza macroscopica che noto tra loro e le altre intuizioni o visioni del mondo è che alcune di esse si arroccano su posizioni spesso palesemente assurde, e da queste iniziano a pontificare contro tutto ciò che è “altro” o “diverso” da sé. Com’è possibile considerarsi tutti insieme pacificamente cittadini, scienziati, abitanti, osservatori o estasiati di questo caos se in mezzo continuano a serpeggiare abominevoli individui assetati di potere, e con la verità in tasca, che per imporsi sugli altri usano come unico strumento l’intolleranza? Più fedi, più filosofie, più critiche, più idee non possono che far bene al progressivo crescere dell’uomo. E questa molteplicità è garantita solo da un sano relativismo, che non annienta nessuno sul suo cammino in nome della superiorità della sua dottrina o della sua croce.

Eppure, in tempi recenti, da quel balcone se ne sentono di cotte e di crude. Tra queste, un improvviso ritorno ad una “legge morale naturale”. In pratica, se il relativismo di cui sopra ha come suo cavallo di battaglia la supremazia della cultura, quale miglior antidoto a tale sacrilega ed eretica visione se non quello di sostituire alla cultura la natura? E di fronte a questa profonda intuizione io spicco il volo. Mi innalzo fino al punto da cui poter ammirare l’intero italico stivale. E da lassù, con tutta la naturalezza necessaria, mi metterò a far di conto e verificare dov’è finito l’8 per mille e perché. Ma infondo, è tutto relativo…

 


La più grande associazione gay italiana, Arcigay, si sta preparando per affrontare il congresso, programmato per il prossimo febbraio a Perugia. Come tutti i congressi che ricordo, anche questo sarà caratterizzato da scontri, fazioni, numeri, deleghe, opportunismi, e chi più ne ha più ne metta. Si tratta di un congresso politico, e come tutti i congressi di questo tipo necessitano di mozioni, firme, appoggi, aree, interessi. Fino ad arrivare alla conclusione di facciata che meglio soddisfa la convivenza tra lupi, capre e cavoli. Tali conclusioni sono incarnate solitamente da una giustapposizione di personalismi, incarichi e progetti. Si eleggerà un presidente, una segreteria e un consiglio. E tutti ricorderanno quegli indimenticabili giorni umbri come un nuovo inizio. Il vecchio presidente verrà annoverato nella schiera dei presidenti onorari. E la nuova rappresentanza si sentirà libera di governare interpretando al meglio il proprio ruolo in un panorama politico desolante.

D’altronde il variegato mondo lgbt italiano attraversa un momento di estrema confusione: un anno intero (governo Prodi) trascorso tra Unioni Civili, Dico, Pacs, Cus, etc; l’arrivo di Miss Cinema al Ministero delle Pari Opportunità; un’intera estate di aggressioni omofobe violente e una bocciatura con insulti e teste di struzzo ben ficcate sotto la sabbia al momento del voto per una legge che finalmente avrebbe potuto riconoscere il reato di omofobia. L’associazionismo gay, come tutta la società civile, è effettivamente disorientato. Sembra che ad ogni aggressione, ad ogni petardo, ad ogni incendio, in ciascuno di noi si annidi sempre più un senso di abbandono, impotenza, solitudine. Paura. E’ come se un pò alla volta stesse scomparendo quell’abitudine a gridare forte e chiaro il proprio orgoglio, lasciando il passo ad assembramenti spontanei, silenziosi, poco organizzati, che accentuano indignazione e vittimismo e mettono sempre più da parte un orgoglioso protagonismo. Parlo di un protagonismo individuale, anche di quello semplicemente fatto di un’asta e di una bandiera, di un cartello costruito con le amiche all’interno del circolo cittadino. Ma parlo anche di un protagonismo associativo che rivendichi la sua dignità e il suo peso in questo contesto storico. Sull’onda di un’emergenza drammatica, che trova ampio spazio sui palinsesti mediatici di regime, facciamo audience senza essere in grado di ribadire quello che più di tutto ci interessa: l’inalienabile diritto all’uguaglianza. E aggiungo: senza perdere di vista la nostra specificità.
Siamo tutti e tutte disposti a riconoscerci in pochi e semplici concetti. Cercherò qui di elencarli in ordine di importanza.
Le relazioni tra persone dello stesso sesso devono essere depenalizzate, e in particolar modo bisogna lottare affinché non esista più su questo pianeta la pena di morte e la tortura per le persone lgbt. Ci sono ancora 80 paesi che incarcerano, torturano e uccidono persone con l’accusa di omosessualità. La nostra battaglia è prima di tutto mondiale. Bisogna far in modo che in tutti i paesi del mondo possano nascere associazioni di persone lgbt che lottano per il riconoscimento dei propri diritti, e far si che queste organizzazioni diventino interlocutori privilegiati nella formulazione di nuove leggi e politiche. Bisogna mettere fuorilegge ogni forma di discriminazione e molestia basate su orientamento sessuale o identità di genere, soprattutto per quel che riguarda il lavoro, la casa, l’istruzione, l’assistenza sanitaria, la pubblicità e ogni fornitura di beni e servizi ai cittadini. Bisogna che non ci sia nessuna differenza nello stabilire l’età del consenso tra omosessuali ed eterosessuali. E riconoscere i diritti per i partner dello stesso sesso attraverso il matrimonio o le unioni civili. L’insegnamento dell’educazione civica e sessuale nelle scuole deve includere le specificità omosessuali, questo aiuterebbe a combattere l’omofobia e a comprendere e ad accettare le persone lgbt. Chi si macchia di crimini basati sull’odio omofobico deve essere punito. E gli interi apparati delle leggi degli Stati andrebbero rivisti per rendere tutto sessualmente neutrale: non devono esistere differenze tra eterosessualità, omosessualità, bisessualità e transessualità, tutte le persone devono avere le stesse responsabilità davanti alla legge. Alle coppie dello stesso sesso deve essere consentito di accedere a trattamenti di fertilità e all’adozione di bambini. Infine, le campagne di prevenzione e di educazione sull’hiv devono includere specifiche indicazioni per le persone lgbt, così come nessuna discriminazione dev’essere fatta per l’accesso alle cure e ai servizi di sostegno. Inutile dire che i preservativi devono essere gratuiti o a basso costo per chiunque.
Questo è un elenco base, forse un pò generico e privo di esempi, ma sicuramente efficace per la definizione delle politiche di un’associazione gay. Ripartendo da queste basi, ribadendole fino alla nausea, e facendo in modo che siano onnipresenti nei nostri discorsi, nelle nostre azioni e nei nostri intenti, si recupererebbe un livello di militanza che ormai si sta perdendo tra i cavilli di leggi che non ci vogliono concedere: prima dei cavilli c’è la volontà politica, e se non riusciamo a suscitare questa nella nostra classe dirigente, non ce ne faremo nulla comunque di una legge storpia e strappata coi denti sul filo di un voto. Questa volontà politica la si risveglia dimostrando di essere protagonisti di una grande lotta di civiltà. Questo richiede serietà e preparazione. Non c’è bisogno solo di strategia e stratagemmi per garantirsi una presenza, magari anche solo per pochi istanti di tv. C’è bisogno di risposte precise, lucide, magari anche corali, che dimostrino unità di intenti e lungimiranza. La più grande associazione gay italiana, secondo me, è chiamata a dar voce a questa dimensione dell’attivismo. Sul valzer delle poltrone non ho molto da dire, credo però che la presidenza onoraria sia meglio darla ogni volta a una personalità diversa: per esempio stavolta la darei a Fini (o alla Binetti). Un pò come il Nobel: l’effetto mediatico sarebbe esplosivo.


Sono appena tornato da una vacanza trascorsa a Madrid. Ci sono andato per rilassarmi insieme al mio compagno Alex. Come in ogni viaggio che faccio, mi son caricato la zavorra di un pò di carta: libri, riviste, poster, cartoline e materiale vario. Abbiam dovuto pagare anche un extra al check-in per il sovrappeso dei nostri bagagli. Non tutto ciò che ho raccattato valeva la pena di esser trasportato fin qui, ma il feticismo è una malattia che si cura con lunghe e costose frequentazioni di psicanalisti che spesso si divertono, retribuiti, a curiosare tra i tic altrui senza risolvere proprio nulla. Per cui cercherò di convivere col mio feticismo, almeno, come dice Alex, finché il pavimento del nostro appartamento al primo piano lo sosterrà.
Il prodotto editoriale che pesa di più, e che non avrei lasciato nella capitale spagnola per nulla al mondo, è un libro patinato, ben rilegato e di ottima presentazione grafica. Il titolo è molto eloquente: “Libro de huelgas, revueltas y revoluciones” (Libro di scioperi, rivolte e rivoluzioni). Un vero e proprio catalogo storico di uomini e donne che affrontano il potere che li sottomette. Un’antologia che insegue un unico filo conduttore: la rabbia. Persone che cercano in modi diversi di ottenere uno stesso risultato: vivere in un mondo più giusto.
Ero quasi commosso quando l’ho sfogliato in libreria. Un mercato editoriale come quello spagnolo, che non eccelle in edizioni pregiate e che spesso risparmia sui costi di confezione dei libri, riesce a dedicare ad un excursus così passionale uno dei migliori sforzi editoriali. In questa libreria non distante dalla residenza reale, ho trovato un ottimo caffè Lavazza e una intelligente selezione di titoli, oltre che un programma di iniziative di tutto rispetto. Tutti i libri in Spagna non recano stampato il prezzo. Probabilmente questo è dovuto all’ampio mercato sudamericano cui possono far riferimento, in cui ci sono valute di vario tipo. Mi sono recato alla cassa e dal mio bancomat hanno prelevato 22,50 euro. Una cifra equa se tengo conto della quantità e qualità delle evocazioni che mi ha suscitato anche solo sfogliarlo per un pò.
In rigoroso ordine cronologico si susseguono le più esemplari proteste della storia, a cominciare dalla ribellione di Lucifero, riportata in una versione in prosa del “Paradiso perduto” di John Milton, con le illustrazioni di Gustave Doré.
Un passo di “Spartaco” di Howard Fast testimonia la rivolta degli schiavi contro Roma. Da questo stesso romanzo storico è stato tratto l’omonimo film di Stanley Kubrick. Il passo è illustrato da alcuni dettagli di opere di Andrea Camassei, che sono visibili presso il Museo del Prado, a Madrid.
La rivoluzione inglese e quella francese sono descritte rispettivamente da Mark Twain e da Stefan Zweig.
Un capitolo è dedicato a Madrid contro Napoleone: una punta di orgoglio non guasta. A celebrare questa pagina di storia un frammento di Benito Pérez Galdòs.
Si arriva ai giorni nostri con la ribellione degli schiavi neri d’America; il testo scelto è quello di William Styron.
E’ “L’educazione sentimentale” di Gustave Flaubert a celebrare l’immenso sforzo collettivo del movimento operaio. Mentre Jules Vallès narra le vicende de La Comune di Parigi: grande impresa governativa insurrezionale sfociata nel sangue.
Il movimento delle Suffragette che ha lottato per il riconoscimento del voto alle donne viene ricordato con il discorso di Clara Campoamor del 1931 davanti alle due Camere riunite (las Cortes).
Sarà l’espressione di Lenin, che si rivolge alla folla attenta, che reca cartelli scritti in cirillico, a ricordarci quella stagione di inizio Novecento che segnò per molti decenni la storia del mondo occidentale: la rivoluzione sovietica. Sofia Casanova ne scrive un diario di un testimone.
Le commoventi parole di Wladyslaw Szpilman de “Il Pianista” ci ricordano la terribile ribellione nel ghetto di Varsavia.
Non mancano l’indipendenza d’Algeria, il maggio ’68, e soprattutto non potrebbero mai mancare le lotte antifranchiste.
L’Intifada e il movimento anti-globalizzazione chiudono questa antologia di emozioni ormai atrofizzate nel corpo e nell’anima di tutti gli italiani.
Nonostante la regione iberica non necessiti di alcuna propaganda in tal senso, riesce a dare dignità editoriale a quell’umano istinto di migliorare le condizioni rispetto a ogni sottomissione. Nello stivale questa dignità sembra essere stata dimenticata il giorno stesso in cui penzolava in piazzale Loreto il corpo di Mussolini. Questo tipo di editoria non può essere liquidata come anticaglia estetica. Viviamo in un mondo in cui ci sembra normale che un puttaniere miliardario colluso con la mafia governi un paese civile, e che la morte per fame di milioni di persone sia considerata un evento naturale.
Poggerò questo prezioso catalogo sul comodino e cercherò di alimentare sogni di cittadinanza, di giustizia e di (vana)gloria.

edicion de costantino bertolo

edicion de costantino bertolo


Omofobia è una parola fin troppo “colta” per poter essere intesa dalle persone che la vivono; da tempo immemore ci chiamano con nomignoli tutt’altro che raffinati, e giusto per renderci conto di cosa sto parlando provo a fare un breve elenco: froci, rottinculo, pederasti, ricchioni, culattoni. Sicuramente chi usa in senso dispregiativo parole di questo calibro non comprende la gravità del lemma omofobia. Questo gap culturale crea almeno due ordini di problemi. Il primo, e il più ovvio, è che usando questo termine politicamente corretto non ci facciamo intendere dai reali destinatari che soffrono di questo disturbo psichiatrico, con conseguenti problemi di efficacia del nostro operare. Il secondo, meno ovvio, ma che sta prendendo forma sotto gli occhi di tutti, è che a intendere il significato, nella sua forte carica socialmente problematica, è quella parte di cittadinanza che finora o ci ha preso in giro politicamente, socialmente ed economicamente, oppure gode di uno status immeritato basato sullo sfruttamento dell’ignoranza del popolo e usa a suo vantaggio l’intendere questo significato e che sotto sotto ci vorrebbe vedere bruciare ancor prima che ci brucino le fiamme del loro stupido inferno. Per inciso, è doveroso citare il continuo accostamento da parte delle gerarchie vaticane della nostra condizione a quella dei pedofili e addirittura degli zoofili. Questo si che è un livello di omofobia colto e organizzato, con terribili secondi fini ed effetti socialmente devastanti.
L’ultras o il naziskin di turno cosa capirà meglio, pedofilia o omofobia? Il suo braccio si arma contro di noi a difesa di quale superiorità? Sbandierata da chi? Legittimare qualcosa vuol dire anche offrire le parole giuste e i concetti giusti per alimentare l’odio o la pace.
E’ proprio sull’uso delle parole che si conquistano nuovi orizzonti. Le parole sono importanti. Le parole sono pietre. Potrei citare infiniti altri esempi di affermazioni che centrano sulla parola l’importanza della nostra vita nel costruire il senso della civiltà che ci sopravvive.
Per molti anni, come movimento, ci siamo concentrati nel far capire a tutti la differenza tra coming out e outing. Lo abbiamo fatto addirittura usando parole straniere. E’ probabile che la nostra amata lingua non ci avrebbe ritagliato un dignitoso spazio per distinguere tra “venir fuori allo scoperto” e “sputtanamento”. La complicazione nell’uso di queste due paroline inglesi è stata sicuramente la strada più breve per dare un nome a due situazioni specifiche che tutte le persone omosessuali vivono o riconoscono. E lo abbiamo fatto scegliendo il percorso che meno di tutti si prestava a sconfinamenti nel triviale italian style. Ma anche qui, le parole non hanno avuto facile fortuna. Basti pensare al fatto che i principali quotidiani italiani ancor oggi le riportano senza capirne la differenza. E sono trascorsi 40 anni da Stonewall.
Lo stesso, e forse peggio, si può dire dell’acronimo LGBT. Siamo malati di correttezza e inclusione. E facciamo di tutto per architettare soluzioni linguistiche omnicomprensive e internazionalmente accettate affinché la comunità che andiamo costruendo giorno dopo giorno non resti impantanata nel provincialismo italico. Ma nel frattempo, ci tocca prendere atto che l’Italia, insieme alla Grecia (che addirittura usa un’altro alfabeto), sono i due fanalini di coda nel riconoscimento dei nostri diritti. Eh si, facciamo un pò di retorica, proprio quei due territori in cui si praticava e decantava “l’innominabile vizio degli antichi”. Due paesi in cui vige ancor oggi il “si fa, ma non si dice”. E questo vale in tutti gli ambienti. Liberissimi quindi di scopare con un prete, con un nazi, con un politico di destra, con un politico cattolico o con un politico di sinistra. Ma nessuno parli di amore. E soprattutto nessuno lo dica a mia moglie o ai miei amici. Il frocio-bastardo-rottoinculo-culattone deve restare tale. E ogni volta che manifesta assurdi sintomi di riconoscimento della sua dignità, deve essere violentemente ricacciato negli inferi da cui proviene. E soprattutto dove posso pure ritrovarlo in caso di immediato bisogno.
All’origine delle democrazie moderne c’è stata una rivoluzione al grido di Liberté Egalité Fraternité. Alcuni secoli sono trascorsi, e qui sembra che nessuno abbia fatto sua questa grande lezione. Sono circa vent’anni che va avanti la pantomima del tira-e-molla sui nostri diritti con la sinistra. E non abbiamo ottenuto nulla. Ma il catalogo dei pateracchi bizantini per riconoscerci è cresciuto: Unioni Civili, Pacs, Dico, Cus, Didore. Tutto questo per dimostrare a noi una sostanziale ipocrisia e al mondo un’infinita incapacità politica, a partire dal non saper dare un nome alle cose. Un nome c’è, esiste, è comprensibile da tutti e tutte, nessuno può contraddirlo, nessuno può permettersi di attaccarlo senza precipitare nel ridicolo. Questo nome è Uguaglianza. Non parità, attenzione, uguaglianza! E’ da qui che il movimento vuole e deve ripartire. Uguaglianza incondizionata. Uguaglianza pura. Nessun particolarismo. Nessun compromesso. Siamo tutti uguali. Lo dice la costituzione. Lo deve dire anche la legge.
Si tratta di una parola comune, popolare. Un concetto di difficile storpiatura. Rivendicando l’uguaglianza avremo modo di segnare un solco netto tra ciò che è democratico e ciò che non lo è. Il movimento lgbt italiano si è dato appuntamento a Roma il 10 ottobre prossimo per ripartire da questo concetto. Per intraprendere la strada più diretta per il riconoscimento del nostro status di cittadini e cittadine uguali.
Prepariamoci a parlare una lingua più semplice, più diretta, sui nostri cartelli, sui nostri striscioni, dai nostri megafoni. Facciamo in modo che i giornali di domani al posto di titolare “naziskin omofobi aggrediscono omosessuali” escano con titoli tipo “squilibrati affetti da sindrome del Vaticano mettono a ferro e fuoco la città”. Sarà presto un mondo diverso: tutti uguali, davanti alla legge.

Bruno Pompa

editoriale magazine Cassero set-ott 2009


Mi sono imbattuto in un soliloquio e quindi lascio che l’autore continui a parlare coi suoi fantasmi. Userò questo mio spazio per organizzare una replica, destinata ad un pubblico altrettanto immaginario.

Conosco una signora, una di quelle altolocate, piena di titoli nobiliari che non credo abbia mai nominato in vita sua. Vive, veste, mangia, si muove e parla con estrema eleganza. E quando usa la parola frocio nessun essere umano se ne sentirebbe offeso. Eppure, la stessa parola usata da un provinciale, bacchettone, ultraquarantenne, che ha bisogno di nominare le marche dei vestiti che indossa per sventolare la sua eleganza, suona in modo diverso. Soprattutto se accostata ai suoi mocassini. Ecco, in quel caso direi che si tratta proprio di istigazione alla violenza contro le persone omosessuali. Solo un giornale come Il Foglio poteva pubblicare quello sproloquio. Noi omosessuali maschi quando facciamo sesso ci sporchiamo sempre un po’ di merda. E le femminucce, invece, da quelle parti, in molti sanno di cosa puzzano. Ognuno fa i conti col proprio modo di stare a letto. Ma non sono le puzze o gli escrementi a fare la differenza. Tantomeno gli orifizi. Infilare un pisello in un buco. Fare in modo che un buco abbia il proprio “pisello”. Questa mi sembra la pratica naturale cui molti animali si dedicano. Eterosessuali, omosessuali, bisessuali o transessuali. La differenza è altrove. E consiste nel sapersi godere la vita. E quando la tua vita gode per aver allontanato dai tuoi candidi tessuti (tra l’altro solitamente cuciti da mani che spesso si dilettano con un pisello e non con una gnocca) un vocabolo e tutto ciò che esso comporta, vuol dire che la vita te la godi poco. E l’assembramento di persone con le quali ti ritrovi, e che condivide questa tua attitudine, non fa altro che replicare uno schema trito e ritrito, volto solamente a mantenere il proprio status. Una società basata sull’adorazione della minchia. Verticale. La differenza tra chi può essere considerato parte di questo assembramento e chi no sta solo nel verificare la presenza di un pisello tra le gambe e un dichiarato disprezzo per tutto il resto, donne comprese. La mia società non funziona così. Il mio assembramento di persone non gode di così beceri artefatti psicotici, bensì gode di impulsi primordiali. Tutti sappiamo cosa vuol dire procurarsi piacere. Annullarsi l’uno nell’altro. Godere di un amore anche solo accennato, anche solo per un istante, anche solo per una notte. O per tutta la vita. Un amorevole istinto che è ben diverso dal progetto fallito che si capisce perfettamente dagli abiti che indossi. Dal progetto tradito da parole di odio. Dal progetto insulso di trasmettere alla prole attitudini violente. Nemmeno il tuo peregrinare di città in città ti ha insegnato qualcosa di buono in tal senso. Di solito un prolungato soggiorno nella città di Bologna lascia alle persone qualcosa in più dei souvenir da stazione dei treni. Qualche mese fa il Cassero ha tappezzato la città con un manifesto che recitava “W Bologna busona”. Era il periodo della campagna elettorale. La forza di quel messaggio risiede nella sua ironia, autoironia e nel consapevole confronto con le radici, anche linguistiche, di questa città. Un luogo godereccio, che fa meno figli di Napoli, ma più di Trieste. Figli che ormai parlano diverse lingue e che nessun neurobiologo ha mai bollato come dislessici, semmai più pronti di chiunque altro ad affrontare il nomadismo che contraddistingue la nostra epoca: starsene accanto a chi ti insulta mostrandoti il suo lucido mocassino è un orizzonte un po’ perverso, che nemmeno la vecchia e stupida psicanalisi saprebbe curare. Meglio spiccare il volo e lasciar marcire nella noia un comune stronzo della palude parmense.


I fatti accaduti l’altra notte all’uscita dal Gay Village di Roma sono noti a tutti. La stampa ne ha abbondantemente parlato. Pochissimi tra i fatti riportati possono suscitare dubbi di correttezza. A parte il movente che ha scatenato la violenza del cerebroleso A.S. di 40 anni. Non si sa bene chi e non si sa bene come ha fatto a venir fuori la giustificazione della presenza di un quattordicenne, che la stampa ha prontamente commentato come presenza fuori luogo data la tarda ora. Io credo che sia alquanto azzardato dare voce a un assassino fuggiasco, riportando le motivazioni del suo gesto disgustoso quanto animalesco. Cercare di inquadrare il suo gesto in una logica che prevede la difesa di un candido quattordicenne esposto a scene raccapriccianti come quella di un bacio tra maschi, è da considerare un’azione discriminatoria. Non c’è giustificazione alcuna al gesto del misero assassino, ricco di precedenti penali. Anzi, credo  proprio che se i fatti violenti da lui scatenati non fossero accaduti, la normalità della scena era la seguente: galeotto privo di scrupoli, rapinatore e spacciatore si intrattiene nello stesso spazio in cui si aggira un quattordicenne. Voleva vendergli della droga? A me sembra il minimo. E poi, tanta voglia di tutela nei confronti di questo quattordicenne da dove scaturiva? da un improvviso senso di paternità? dal voler proteggere un suo cliente? dal cercare di segnare un territorio in cui poi si è liberi di agire come si vuole? Questo è quello che sarebbe accaduto se la lama non fosse stata spinta a fondo. Una zona conquistata da un malvivente. Magari il gesto non sarebbe nemmeno stato denunciato, e lo spacciatore avrebbe potuto continuare ad agire indisturbato. Invece no, la bottiglia si è fracassata su una testa e una lama è stata conficcata in un addome. Si chiama violenza assassina. Un ottimo esempio da offrire alla vista di un quattordicenne, i cui genitori rispondono comunque di tutto ciò che riguarda il suo essere incapace di intendere e volere. Vedo già i milioni di persone che covano un fastidio, se non una vera e propria omofobia, nei confronti delle persone omosessuali, cercare una giustificazione e una compartecipazione al dramma vissuto dall’assassino a piede libero. Vedo già le discussioni nei bar o sulle onde di alcune radio libere tentare la carta dell’assoluzione, ben supportati dalla presenza del giovane quattordicenne. Vedo l’assenza di una controparte in tali discussioni. Vedo la denuncia generica da parte delle istituzioni di ogni tipo. E magari immagino anche una possibile condanna come se tutto questo fosse un caso isolato e frutto di una mente bacata che in quel momento (non si sa come) era in libertà. Con le leggi che ci ritroviamo oggi in Italia sarà comunque una pena lieve. Nessuna aggravante che tenga conto della discriminazione per orientamento sessuale. Questo tipo di considerazione della dignità della persona il nostro codice non lo prevede. Abbiamo addirittura dovuto assistere allo sclero di Alemanno contro la procedura che ha permesso di lasciare un pericoloso criminale a piede libero. Ma, comunque, anche se di un sindaco, si tratta di uno sclero isolato. Si provi ad immaginare quanti arresti sono stati effettuati dopo un’accusa di stupro per evitare che lo stupratore venisse linciato dalla folla. In questo caso, non solo non si è rischiato un linciaggio, ma nessuno ha mosso un dito durante e dopo gli accadimenti. E non c’è stata alcuna convalida di fermo dopo che l’assassino è stato rintracciato. Uso volutamente la parola “assassino” dal momento che dopo aver conficcato la lama, A. S. di 40 anni è fuggito, omettendo eventuale soccorso e non conoscendo alcun esito preciso del suo affondo: questo si chiama uccidere. Se qualche credente dell’ultim’ora preferisce pensare alla vittima come miracolato, faccia pure, vorrà dire che i santi in paradiso non si scandalizzano di fronte a un bacio tra maschi. Tutto questo continua a passare come un fattaccio di cronaca, con tanto di cronisti corsi in ospedale a strappare dichiarazioni alle vittime e ai genitori delle vittime. Nel frattempo un assassino gode di un privilegio legale inaudito. Non si è mosso alcuno sdegno da quelle poltrone che godono di immunità totale, ovvero dalle più alte cariche dello stato. Secondo loro questo è un episodio di nessun valore, da abbandonare alla confusione mediatica in modo tale da sostenere l’ondata xenofoba che fa tanto comodo alla strategia della paura e del viagra dei festini in villa. Stiamo vivendo una profonda crisi di civiltà. Ormai se ne iniziano a rendere conto più cittadini di quanto si possa immaginare. E l’impotenza che ne deriva è dovuta al fatto che ci vorrà troppo tempo e troppo sforzo per aggiustare il tiro di una tendenza simile. Il prezzo da pagare per tutta questa pochezza civile, per tutto questo disimpegno, per tutto questo orrido modo di costruire lo “stare insieme” è diventato davvero troppo alto. La vittima scampata alla morte ha detto “vado via dall’Italia”. Credo sia un segnale d’allarme per la nostra civiltà. Non era così solito ascoltare reazioni del genere dopo una coltellata. Così come non era possibile ascoltare in radio commenti e reazioni di questo tipo. Tra l’altro da una radio che sostiene la stessa ideologia del nostro attuale ministro dell’interno, colui che dovrebbe garantire la pace sociale e la tolleranza tra i cittadini. Probabilmente siamo in attesa che accada qualcosa di grave, di molto grave. “Per scuotere la gente non bastano i discorsi ci vogliono le bombe” recitava così Bennato in una canzonetta scritta quando i boati non erano le urla contro le persone omosessuali.


Trascorrere il mese di agosto in città, e per città intendo una di quelle località che si svuotano per assenza di corsi d’acqua o prossimità al mare, è un’esperienza unica. Il clima, la socialità, i ritmi, i servizi di base, l’intrattenimento, tutto assume caratteristiche che sarebbe impossibile ritrovare in altri periodi dell’anno. E dubito che qualcuno abbia tutta questa voglia di sperimentarle. Basta sfogliare uno a caso degli infiniti diari intimi scritti in queste località e in questo periodo, e ci si accorge subito dei temi ricorrenti che accomunano le sopravvivenze in contesti tanto avversi all’edonismo estivo.
Un aspetto in particolar modo mi ha lasciato stupefatto: il traffico. La quasi totale assenza di automobili che permette in alcuni casi di camminare per strada in tutta tranquillità. Riappropriarsi, passeggiando, di quell’enorme fetta di città che abbiamo dato in concessione ai trasporti può essere appagante ed estraniante al tempo stesso. Non ho la patente di guida, non amo i motori, ma per ovvi motivi anche io calco questo asfalto a bordo di automezzi pubblici o privati. Nell’afa estiva d’agosto, però, salire su un automobile significa correre via dalla città per raggiungere qualche periferica frescura. Venti, trenta, quaranta minuti di percorso e intorno si staglia un panorama totalmente diverso. E dentro il nostro animo di prigionieri estivi metropolitani si fa strada un desiderio. “Vado a vivere in campagna”. Detta così, può sembrare un’esagerazione da colpo di sole, ma in realtà sono sempre più le persone che si allontanano dalla città, pur mantenendo con essa un contatto quotidiano, soprattutto lavorativo. Attratti dall’idea di una casa più grande e più silenziosa, dalla possibilità di avere un fazzoletto di terra e dall’aria più salubre, si affronta questo cambiamento senza tener conto di un fattore determinante: il traffico. Sempre lui. Quello che in estate risulta essere il grande assente, durante il resto dell’anno può rivelarsi letale per la nostra salute psicofisica. Ritrovarsi a fare il pendolare su un percorso che è sempre lo stesso, ma che ogni giorno muta il suo aspetto sfinente è una considerazione da mettere sul piatto della bilancia. Il traffico è imprevedibile e questo aspetto lo rende una vera e propria tortura. Studi psicologici hanno accertato che anche il peggiore dei traffici con ingorghi continui è sopportabile se costante, sempre uguale a se stesso, puntuale, rispetto al solito imprevedibile caos stradale che ci rovina pianificazioni e nervi. Ogni giorno un inferno diverso. E ci si ritrova a bestemmiare e a non sapersi spiegare il come ed il perché di un fenomeno così inafferrabile. In realtà una spiegazione logica c’è, e la forniscono numerosi studi, i quali concordano nell’affermare che ogni strada ha una sua densità critica, che corrisponde al numero di automobili che la strada stessa è in grado di accogliere in modo efficiente. Quando si va oltre questo limite il flusso inizia a crollare. E ogni piccolo gesto, come ad esempio un piccolo tocco di freni, scatena una cascata di luci rosse degli stop. E improvvisamente la strada si trasforma in un grande parcheggio. Un team di fisici dell’Università di Nagoya sostiene che un ingorgo si forma come un cubetto di ghiaccio: in questo caso la soglia critica è la temperatura, che innesca un rallentamento di gruppi di molecole fino a formare un reticolo cristallino, che si estende poi alle molecole vicine.
I tentativi per mantenere un buon livello di accoglienza delle strade sono numerosi, tra questi i semafori, oppure le luci rosse in autostrada che ci segnalano in anticipo i momenti critici. Anticipare la criticità è l’unica soluzione. Le formiche, ad esempio, che si incolonnano per trasportare cibo nel formicaio, di fronte ad un ingorgo reagiscono mettendo in campo alcune unità che fungono da vigili urbani e impediscono ulteriore afflusso in quella via, costringendo le altre a trovare strade alternative. Con i nostri potenti mezzi tecnologici dovremmo essere in grado di anticipare situazioni critiche con un semplice monitoraggio GPS. Alcune compagnie telefoniche in accordo con le società di gestione delle strade offrono questo tipo di servizio. E tutto pare funzionare meglio. Anche se il traffico sembra governato da una casualità assoluta, in realtà non c’è nulla di inevitabile in una paralisi. Non impareremo a guidare come le formiche, ma è anche vero che non è un caso che nel mese di agosto è possibile passeggiare sulle carreggiate cittadine. Ma io insisterei sul fatto che rendersi pendolari ha senso solo se si guadagna almeno il doppio di quello che si guadagnava raggiungendo il posto di lavoro comodamente a piedi.


Il settimanale Alias, allegato all’uscita del sabato de Il Manifesto, resta per me un appuntamento imperdibile da anni. Prima di Alias la stessa testata aveva altre iniziative mensili e settimanali tra le quali mi piace ricordare quella titolata SUQ, l’esperimento più simile all’Alias dei nostri giorni. Un quotidiano che si definisce comunista, che non riceve finanziamenti pubblici, che si è organizzato in forma di cooperativa, che sfugge alle logiche della stampa corporativa, riesce con questo gioiellino settimanale a mostrare angoli della nostra cultura, italiana ed internazionale, di altissimo valore morale, letterario, musicale, artistico in generale. E lo fa continuamente in molti modi diversi, dalle monografie cinematografiche volte a snocciolare un immaginario magari ormai poco praticato, alle intere bibliografie capaci di riempire preziosi vuoti nelle nostre librerie o ricerche. Le recensioni sono sempre molto curate. Le firme si susseguono numerose e riescono nel tempo a restituirci un’immagine di un’Italia editoriale connessa e attenta a ciò che più di tutto la cultura è chiamata a fare: sedimentare esperienze di valore nelle migliori forme possibili.
L’ultimo numero di Alias (1 agosto 2009) si sofferma su consigli di lettura (ma anche di interessanti mostre da “leggere”) compilando il più classico dei clichè: cosa mi porto da leggere in vacanza. La sfida culturale è altissima. Per verificarla basta dare uno sguardo all’elenco dei titoli proposti:

– Jean Fallot, un autore da scoprire attraverso un percorso selezionato dei suoi diari e di un’opera che racchiude tutto il suo pensiero “Il pensiero dell’antico Egitto” (Bollati Boringhieri).

– Nicolò Carmineo, “Nei mari dei pirati” (Longanesi), un libro inchiesta che ci illumina su aspetti di questa silenziosa e costante guerra che avviene al largo delle coste, molto diversa dalla romantica pirateria romanzesca cui tutti siamo abituati.

– Ma Jian, “Pechino è in coma” (Feltrinelli), un romanzo scaturito da una coraggiosa penna capace di denunciare gli orrori della storia comunista e della successiva mercificazione forzata.

– Mo Yan, “Le sei reincarnazioni di Ximen Nao” (Einaudi), cinquant’anni di storia cinese vista sia attraverso le esperienze di un ricco possidente ucciso dai rivoluzionari e rincarnatosi sei volte, sia attraverso i casi dei familiari e degli abitanti del villaggio.

– Nicolai Lilin, “Educazione siberiana” (Einaudi), un romanzo antropologico e autobiografico tutto teso a divulgare i saggi insegnamenti del popolo Urka basati su una visione della vita autonoma e anarchica rispetto a qualunque sistema di potere.

– William Gaddis, “JR” (Alet), a trentacinque anni dalla pubblicazione negli USA arriva in Italia l’opera che mancava per completare il quadro della letteratura postmoderna americana. Un romanzo difficile che trova qualche facilitazione nel sito web dell’autore.

– D. H. Lawrence, “Classici Americani” (Adelphi), viene riproposto un testo del 1923 in cui l’autore scatta un’istantanea di tutto ciò che in America fosse degno dell’appellativo Letteratura. Una trattazione sopraffina che ebbe la sua influenza in tutti i circuiti letterari internazionali.

– Edmund White, “Caos” (Playground), ennesimo atto di fiducia della casa editrice romana nei confronti di un autore gay, la cui narrativa va ben oltre questa semplice etichetta. Si tratta di una raccolta di scritti, cui Caos dà il titolo al volume ed è il racconto della vita di una marchetta di fine Ottocento a New York. (Luca Scarlini)

– Jean-Luc Nancy, “Sull’amore” (Bollati Boringhieri), breve conferenza che tratta un tema profondo e delicato come il sentimento amoroso. Il filosofo si interroga sulle modalità di vivere l’amore in un mondo in cui il desiderio sembra mutarsi in obbligo igienico e risorsa commerciale.

– Diane Middlebrook, “Suo marito” (Mondadori), biografia matrimoniale di due poeti d’eccezione come Sylvia Plath e Ted Hughes. L’autrice arriva a mettere un punto su una storia già raccontata altre volte, mostrando un marito adultero, un marito colpevole e infine il marito di lei Sylvia.

– E. E. Cummings, “Poesie d’amore” (Le Lettere), cinquanta poesie in cui è riconoscibile lo stile cummingsiano, la sintassi stralunata, la punteggiatura espressiva, la poesia tipografica. Per quel che riguarda i temi Cummings tratta i più antichi del mondo: caducità, carpe diem, l’amore a cospetto della morte.

– Robert Pinsky, “Un’America” (Le Lettere), un poema narrativo di oltre mille versi, scritti dall’autore di un’ottima traduzione dell’Inferno di Dante in inglese.

– Alan Bennet, “L’imbarazzo della scelta” (Adelphi), esrcizio di critica d’arte, aneddotica, umoristica e popolare. Un autodidatta non autorizzato che dispensa interpretazioni spesso paradossali, ma sempre coinvolgenti.

– Roal Dahl, “Tutti i racconti” (Longanesi), una nutrita serie di racconti orchestrati con ritmo impeccabile da una mente stregonesca che si muove con agio nella zona di intersezione tra umano, meccanico e animalesco.

– P. G. Wodehouse, “La mossa del Vescovo” (Guanda), leggerezza, buonumore, ilarità raffinata e cristallina, senza macchia e senza tempo; un’intramontabile raccolta di racconti.

– Miklòs Rdnòti, “Mi capirebbero le scimmie” (Donzelli), ricostruzione di una biografia poetica scansionando la breve e tragica vita del maggiore poeta antifascista ungherese.

– Danilo Kos, “Homo poeticus” (Adelphi), raccolta di saggi e interviste memorabili dalla quale viene fuori l’immagine di uno strenuo combattente che ha preparato per i posteri un territorio aspro, inospitale. Sfidare tutto e chiunque: se stessi, i critici, i lettori, la letteratura, i maestri. (Enzo di Mauro)

– François Feito, “Ricordi” (Sellerio), ebreo, ungherese, visse quasi cent’anni tra gli epicentri del Novecento: la breve adesione al comunismo, l’esilio a Parigi nel ’38, le simpatie per De Gaulle e Aron. Storico “di archivio”, la sua etica fu sempre quella di testimoniare il male. (Massimo Raffaeli)

– Albert Cossery, “La violenza e il riso” (Barbès Editore), dalla seconda patria Parigi, dove visse sempre in una stanza d’albergo, si limitò a narrare la desistenza contro il potere dei fannulloni del Cairo natale. (Stefano Gallerani)

– Boni de Castellane, “L’arte di essere povero“, manuale su come gestire la rovina con stile, frutto della cultura dandistica della belle époque: lo scrisse un personaggio squisito immortalato da Proust, su cui ragionare a partire da Baudelaire.

– a cura di Angela Maria Andrisano e Paolo Fabbri, “La favola di Orfeo” (UnifePress), raccolta di lavori eterogenei sul mito di Orfeo, distribuiti nelle tre sezioni Letteratura, Immagine e Performance. (Roberto M. Danese)

– Marc Fumaroli, “Chateaubriand. Poesia e Terrore” (Adelphi), un libro reazionario e contro-rivoluzionario, pesante un chilo, che imita i piaceri di una volta con una prosa da Académie française.

– Racine, “Teatro” (Mondadori – Meridiani), nuova traduzione integrale dell’opera del drammaturgo francese. (Raffaele Manica)

– a cura di Andrea Alessandri, “Filottete” (Marsilio), la collana “variazioni sul mito” ideata e diretta da Maria Grazia Ciani si riconferma con questa uscita tra le più vitali e rilevanti del panorama italiano, in materia di classici antichi e moderne riscritture.

– [mostra] Parigi, al D’Orsay, “Une semaine de bontè” di Max Ernst – “Ecco che cos’è il delitto: un poco di materia disorganizzata, qualche cambiamento nelle combinazioni, molecole rotte e nuovamente sommerse nel crogiolo della natura, che le restituirà alla terra in pochi giorni, sotto altra forma” (Juliette, Sade)

– [mostra] Londra, alla Royal Academy la prima monografica di John William Waterhouse – “Waterhouse ha dipinto forse le più belle immagini che siano mai state fatte in Inghilterra, ma te ne vai senza aver visto niente di più di quanto vedevi in precedenza: la risposta è nell’immaginario” (Ezra Pound)

– [mostra] Milano, a Palazzo Reale, “Monet. Il tempo delle Ninfee“, venti grandi tele provenienti dal Museo Marmottan. “Monet non è che un occhio, ma che occhio!” (Cézanne)

Alias resta un settimanale unico, al quale confermo tutta la mia ammirazione per il lavoro svolto finora e incoraggiamento per quello che verrà in futuro.


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19Lug09

E’ inutile, devo ammetterlo: la mia scrivania è un ricettacolo ingestibile di prodotti culturali di vario tipo che vive di vita propria. E devo anche completare questa confessione/arresa dicendo che spesso mi capita di passare del tempo a osservare le forme che riesce ad assumere. Periodicamente tento di illudermi che con un atto di forza e coraggio io possa riuscire in un tempo umano a riordinarla tutta. Ed eccomi qui, pronto all’ennesimo tentativo. Come ogni volta cercherò di estrapolare una breve antologia del presente.

Pochi giorni fa Frédéric Lefebvre, un politico dello stesso partito di Sarkozy, si è beccato una dura reprimenda da re Nicholas per aver suggerito di rimettere al lavoro malati e donne incinte in modo da non farli cadere nella tentazione dell’ozio. Si è parlato di attentato ai diritti dei lavoratori. Ma paragonate ai metodi in vigore nell’industria discografica, le sue proposte non sembrano poi così scandalose.
Già, perché nel meraviglioso mondo della musica sono i cadaveri a tirare la carretta. Da Kurt Kobain a Elliot Smith, da Nick Drake a Ian Curtis, i musicisti morti tornano sempre a riempire gli scaffali dei negozi di dischi. Nella categoria degli stacanovisti dell’oltretomba, Jeff Buckley è senz’altro quello che merita la palma dell’impiegato del decennio. Dopo la sua morte nel 1997, il cantautore prodigio, già spompato quando era in vita dai ritmi del mercato discografico, non ha mai avuto tempo di godere il riposo eterno. Dal mondo delle tenebre sono sbucati ben otto album di Buckley, tra best of, edizioni deluxe e raccolte di inediti. Con l’ultimo Grace: live around the world, Buckley conferma di essere il campione della categoria. Un cd e due dvd che meritano senz’altro elogi (funebri), ma che arrivano dopo un tale sfruttamento del suo cadavere che è impossibile ascoltarli senza sentire una fitta alla bocca dello stomaco.
[Richard Robert – Les Inrockuptibles – su Internazionale n°803]

un decalogo su come guadagnare meglio (rivolto a grafici e visual in genere):
1) tenetevi in forma per gli affari
Tenete sotto controllo clienti e scartoffie, assicuratevi che i pagamenti vengano effettuati tempestivamente e registrate tutte le spese per essere certi che il fisco non di porti via più del dovuto. Chiedete consiglio agli enti che seguono le piccole imprese, cercate di tagliare i costi pianificando le vostre attività in anticipo e cercate di strappare ai vostri fornitori gli accordi più convenienti.
2) investite per fare colpo
Cavalcate le tendenze e investite nel vostro futuro impiegando tattiche di marketing originali, per esempio un opuscolo piccolo ma lussuoso, magliette o stampe in tiratura limitata. Spedite creazioni degne di essere conservate a riviste e blog influenti, clienti consolidati e potenziali e a tutti coloro con i quali vi piacerebbe collaborare.
3) siate adattabili
Se non avete tempo da buttare, è possibile che esitiate a cercare una fonte di reddito temporanea che vi aiuti a pagare le bollette, per timore di trascurare le vostre ambizioni principali. La vostra priorità, tuttavia, deve sempre essere il conseguimento di stabilità e successo a lungo termine, anche qualora questo significhi accettare lavori non troppo entusiasmanti o redditizi nel breve termine.
4) acquisite nuove competenze e rispolverate quelle vecchie
Offrendo un servizio multi-disciplinare avrete modo di intraprendere progetti estesi a più settori creativi senza il timore di sbagliare e senza la necessità di ricorrere ad altri per colmare le vostre lacune. Affinate le capacità già acquisite e apprendetene di nuove. E’ il momento giusto: Adobe e altri stanno contribuendo a ridurre la distanza che separa le varie applicazioni creative.
5) guardate oltreconfine
Non tutti i clienti abitano alla porta accanto. Cercate occasioni fuori dalla zona che conoscete meglio, perlustrando paesi esteri e individuando nuovi potenziali clienti on-line. Lavorando con clienti internazionali potrete affrontare sfide del tutto nuove ed elevare il vostro profilo a livello mondiale.
6) elevate il vostro profilo
L’autopromozione può essere un compito impegnativo ma non costa un gran che se non in termini di tempo ed è un’attività che paga, in termini creativi come in termini finanziari. Investite nei blog, inviate dichiarazioni alla stampa, tenete informati sulle vostre novità i portali di progettazione che più amate, collaborate, esponete le vostre creazioni, partecipate a concorsi e premi e cercate di avere visibilità sulle riviste e sugli annuari che si occupano di progettazione. In poche parole: impegnatevi, partecipate, informate e fate rete.
7) aggiornate il vostro sito
Via il vecchio, avanti il nuovo. Iniziate il nuovo anno mostrandovi pronti a fare nuovi affari. Mettete in evidenza i vostri lavori più nuovi e interessanti, togliete di mezzo quelli più invecchiati e assicuratevi di mettere in luce nella vostra homepage tutte le vostre professionalità, dall’illustrazione alla grafica in movimento.
8) a caccia di sponsor
Promuovere la vostra carriera attraverso mostre o collaborazioni con altri può essere costoso, perciò cercate degli sponsor disposti ad aiutarvi a finanziare le vosre sortite creative fuori dallo studio. Alle grandi aziende piace ancora essere associate con i nuovi talenti emergenti e innovativi e vari enti possono aiutarvi a trovare finanziamenti.
9) in vendita
Tutto ciò che create può potenzialmente fornirvi un guadagno. Molte creazioni possono servire al di là del loro impiego immediato: poster, stampe, spille, magliette e perfino immagini di repertorio. Prendete in considerazione l’ipotesi di creare un negozio (o di trovarne uno esistente che si presti ad aiutarvi) per generare introiti extra. Optando per il fai-da-te potrete risparmiare sui costi stampando su ordinazione.
10) pensate positivo
Cercate il lato positivo di ogni cosa. Se è vero che solo i forti sopravvivono, allora duro lavoro e dedizione faranno la vostra fortuna. La prosperità economica e quella creativa sono anzitutto nelle vostre mani, perciò guardatevi allo specchio prima di dare la colpa agli altri e lavorate per costruire il vostro successo.
[Computer Arts – Luglio 2009]

“Le società intermedie sono le associazioni e le organizzazioni in cui l’individuo entra e di cui fa parte con gradi diversi di intensità, come i sindacati ma anche molti tipi di associazioni; mentre il termine istituzione, sociologicamente parlando, è un pò più forte e robusto perché si riferisce a qualche tipo di sistema sociale in cui si integrano dei valori, delle credenze, delle regole di comportamento, delle regole normative, oltre che delle motivazioni personali. Anche le istituzioni, come le società intermedie, stanno tra l’individuo e gli strati alti del potere e le autorità massime della società.
A tal proposito è in atto già da alcuni anni e tuttora in corso un processo politicamente preoccupante di erosione sia delle istituzioni che delle società intermedie. Ad esempio, i consumi di massa sfrenati e largamente superflui necessitano di una sorta di rapporto diretto con qualche modello, con qualche entità singola come ad esempio le star o altre figure pubbliche riconoscibili che saltano sia le istituzioni che le associazioni intermedie. Anche da un punto di vista produttivo e politico, per avere tanto produttori che consumatori non troppo irrequieti, più o meno adagiati nella loro condizione sociale e umana, è necessario avere un rapporto diretto tra l’individuo e qualche tipo di capo, di figura carismatica o di personaggio dominante. Gli autoritarismi e le dittature del secolo scorso hanno giocato esattamente su questo: uno dei primi interventi che sono stati fatti tanto in Italia quanto in Germania, ad esempio, quando i dittatori hanno preso il potere è stato quello di eliminare il più possibile istituzioni sociali intermedie affinché si configurasse il rapporto diretto tra l’individuo e il suo capo. In Germania, per ricordare che il 30 gennaio 2008 è stato il 75° anniversario della presa del potere da parte dei nazisti di Hitler, i primissimi interventi dei primi anni del potere consistettero nella demolizione della maggior parte delle istituzioni giuridiche, politiche, economiche che si frapponevano tra il capo e il singolo, che non aveva più nessun tipo di legame (non parliamo nè di famiglia nè di realtà locali), ma doveva obbedienza al Führer, al capo. In forme più miti, edulcorate e non così drammatiche, questo si ritrova anche in altri contesti. Nel contesto tedesco c’era una componente politica, militare e di razza, ma una formula abbastanza simile viene utilizzata per assicurare produzione e consumi di massa: il consumo di radio e televisione protratto per ventiquattro ore al giorno è un elemento importante del rapporto che fa saltare le società intermedie e le istituzioni. Il rapporto diretto con la fiction, l’intrattenimento o la telenovela è il passo, il segmento di un processo che collega il singolo individuo a autorità più o meno impersonali e talvolta impersonate che intrattengono il grande circo dei consumi e della produzione in tutto il mondo.
E questo è il peggior regalo che l’occidente abbia fatto al resto del mondo: incanalare, cioè, miliardi di persone sugli stessi modelli di vita e di consumo che noi abbiamo inventato e che fino a un certo momento erano fattori di sviluppo e di miglioramento della qualità della vita, ma che al di là sono diventate forme di infantilizzazione e anche di asservimento politico.”
[tratto dall’intervista a Luciano GallinoComunicazione punto doc N°1 – Lupetti editore]

“Non ho mai avvertito la necessità di comunicare al mondo qualcosa. Solo dopo essere stato in Europa e negli Stati Uniti ho capito che il popolo giapponese vive in un sistema che isola le persone. Se non fai parte di un’impresa non sei nessuno. Quando sono tornato a Tokyo ho pensato che le persone sono come uova che si rompono contro un muro invincibile: il sistema”.
[Haruki Murakami – tratto dall’intervista su Il Venerdì N°1099 – 10 aprile 2009]

Da sempre compaiono parole che significano tutto e il contrario di tutto. Sono di moda. Tutti le usano. Il loro successo sta nella loro stessa ambiguità. “Mash-up”, per l’appunto, vuole dire “poltiglia”. Di origine musicale, forse giamaicana, la parola denota la pratica di campionare da brani differenti le linee del basso, degli alti o gli effetti sonori, per poi miscelarli in qualcosa che suoni in modo totalmente nuovo. L’hip hop fin dai primordi è una pratica mash-up. Oggi con questo termine si intendono anche applicazioni informatiche che traggono dati da più fonti poi accorpate in un tutto unitario. Non solo grazie a feed come Rss, ma anche ad applicazioni quali Google Mashup Editor. Non si tratta solo di una pratica tecnologica, ma anche e soprattutto sociale, a cui con sempre maggior interesse guardano anche i produttori di contenuti multimediali. Di rilievo pertanto, l’uscita di Link7, rivista di riflessione teorica di Mediaset, tutta dedicata alla questione del mash-up nella programmazione televisiva: da Blob al riutilizzo dei prodotti e delle immagini d’archivio, al loro uso selettivo su YouTube, tra repliche e remake di grandi classici. Una lettura importante, soprattutto se temperata con il saggio di Henry Jenkins, “Cultura Convergente” (Apogeo, 2008) che allarga lo scenario alle comunità online di fan, che si organizzano creativamente attorno a prodotti quali Matrix, Harry Potter, Star Wars, Lost, in una continua contaminazione di ruoli e significati.
[recensione tratta da WIRED – N°3 – maggio 2009]

Da pochi giorni mi trovo in Senegal. Il sole è una meraviglia e un forte vento dall’oceano tempera il caldo. […] Tutti i rappresentanti delle istituzioni, gli opinionisti, gli intellettuali e gli scrittori fanno a gara a chi denuncia con più crudezza i responsabili accertati dell’epidemia di Aids in Africa… vale a dire gli omosessuali e le lesbiche. Una ong, che si chiama Jamra, capitanata dall’imam Massamba Diop, ha denunciato la presenza, alla 15^ conferenza sull’Aids, che si è tenuta in città nel dicembre scorso, “di lobbies omosessuali che si sono attivate per fare proselitismo malsano per un ennesimo tentativo di promuovere pratiche contro natura, le quali nemmeno gli animali, i più ripugnanti, oserebbero fare”. […] Gli imam sono alla testa delle proteste contro l’aumento delle bollette dell’elettricità e contro la corruzione dei politici. Spesso, insomma, sono i protagonisti delle rivendicazioni più avanzate (denunciare le ingiustizie in Senegal può essere estremamente pericoloso…). Ma allo stesso tempo sono portatori di mentalità arcaiche, violente e strapiene di pregiudizi ignoranti e vergognosi: alcuni di loro hanno innescato un’aspra protesta per impedire che un gay dichiarato fosse seppellito con rito musulmano al cimitero. Certo, un coro di intellettuali, dalle pagine di Wal Fadjri, il quotidiano più accreditato del Senegal, si è levato contro i dignitari religiosi. Ma non facciamoci troppe illusioni. Lo scrittore Moumar Gueye, nell’argomentare, ha finito comunque per raccontare una storiella omofobica: “Da piccolo mia madre mi ripeteva: hai osservato le capre? hanno tutti i giorni il buco all’aria, ma non vedrai mai un montone montarne il culo”.
[Maurizio Polenghi – Diario – aprile 2009]

“Ma perché bisognerebbe cooperare? Gli studi sulla cooperazione hanno messo in luce che ogni qualvolta i soggetti in competizione (stakeholder con interessi differenti) hanno la possibilità di cooperare il risultato della cooperazione avvantaggia entrambi. La Game Theory ha provato a fornire le spiegazioni di tale comportamento e ha dimostrato che anche in un contesto altamente competitivo come quello del “dilemma del prigioniero”, la cooperazione basata sulla reciprocità sia sempre la strategia vincente. Questa strategia, denominata tit for tat, presuppone infatti di iniziare a cooperare e poi di replicare il comportamento del proprio partner, massimizzando il risultato della cooperazione.
Mentre nella Game Theory la cooperazione è una scelta “economica” intesa a massimizzare un risultato individuale, l’economia del dono, variamente intesa, presuppone la cooperazione solidale subordinata a un insieme di obblighi sociali e fattori non economici di cui si fa garante la comunità che dalla cooperazione si arricchisce. Al dono non è tanto associata un’idea di gratuità ma quella di un diverso modello di scambio, basato sulla reciprocità. La reciprocità è l’anello di congiunzione fra la cooperazione competitiva e la cooperazione elargitiva.
La reciprocità nel dono comporta una triplice obbligazione: dare, ricevere, restituire. Il dono presuppone una restituzione, quindi esiste una convenienza non immediata, nel donare. Esiste una obbligazione al dono quanto un interesse a donare.”
[Arturo Di Corinto – in “Parole di una nuova politica” – transform!Italia]

In una società della comunicazione i temi sensibili non possono che essere inquinati di troppe parole, di ragionamenti fuorvianti, di opinionismo dilagante, di espertismo da salotto televisivo. Quasi sempre la prima operazione da fare è liberarsi delle cornici nelle quali il tema è posizionato, evitare il ricatto dello schieramento fra punti di vista già confezionati, mettere in crisi tutto ciò che è dato come vero, interrogarsi sistematicamente su quale rapporto diretto col tema ha chi parla, confrontare il racconto con il proprio vissuto. Dopo questa azione ecologica, resta ben poco, emerge altro. Prendiamo gli adolescenti, meglio la loro rappresentazione in tre grosse casse di risonanza, coglieremo il rumore.
In questo momento in Italia ci sono continue serate di genitori, organizzate da loro associazioni, scuole o altri, che si interrogano sui figli. E’ un fenomeno endemico, molto diffuso e molto partecipato, singolare perché sono genitori (molto spesso madri) che rinunciano a stare a casa con i figli pur di seguire l’incontro con l’esperto, titolo che è capitato anche a me. Il paniere di domande che stanno attraversando le famiglie italiane con adolescenti è più o meno lo stesso: chi sono, cosa sono diventati, che possiamo fare. E’ una domanda onesta, molto sentita, il disorientamento è evidente, in alcuni casi drammatico. Il problema è che a seguire l’ordine del discorso si finisce per stigmatizzare, elencare ciò che i ragazzi non sono più o non fanno più, smarcare la propria adolescenza dai facili tempi attuali. E invece il nodo sono gli adulti, il ragionamento rimbalza su di loro, sulla loro crisi di magistralità, sulla loro debole esemplarità, sulla loro stessa fatica a reggere la corruzione (morale, nei consumi, nelle scelte di ogni giorno) di questi tempi, sulla loro indisponibilità a transitare dalla fatica del ruolo adulto, attratti come lo siamo tutti, adolescenti compresi, dalla soluzione immediata.  (…)
[di Stefano Laffi – tratto dalla rivista Lo Straniero – N°104 – febbraio 2009]


E’ mancata a Bologna, negli ultimi anni, qualsiasi forma intelligente di intervento a favore della creazione di spazi sociali intesi come luoghi di aggregazione. Il bilancio dell’amministrazione uscente, targata Sergio Cofferati, porta sul groppone anche la chiusura di due importanti esperienze giovanili cittadine: il Livello 57 e il Link Project. Alcuni accordi, sempre in nome della legalità (questo è stato il filo rosso che ha caratterizzato questo mandato – lavavetri, degrado, proibizionismo, coprifuoco, spazi pubblici vietati alle manifestazioni, etc) hanno portato a trasferimenti di altre realtà, poiché occupavano spazi privati. Una gestione che può essere paragonata a un qualcosa che sta a metà tra il padrone di casa (o padrone della città) e il gendarme che ti sculaccia, ti processa, ti punisce. Questo è il riassunto in breve di quelle che possiamo chiamare politiche pubbliche per gli spazi di aggregazione giovanile in città. Bisogna considerare che la delega “ai giovani” è stata mantenuta dal sindaco fino al 2008, quando fu deciso di aggiungerla ad un’assessora, la quale è stata solo in grado (a detta sua) di fare un censimento dell’esistente. In pratica in cinque anni di governo cittadino, per i primi quattro anni si chiude, si punisce, si desertifica, e nell’anno finale si assume qualcuno che stili il nuovo elenco di ciò che è rimasto.
Costruire percorsi culturali e sociali in ambito giovanile è un’attività molto complessa e delicata. Ci vogliono anni di sperimentazione perché un modello possa prendere piede e funzionare coinvolgendo un gran numero di utenti. E’ molto facile puntare una pistola e gridare “tutti fuori di qui”, e lasciarsi dietro il nulla. Un’amministrazione comunale non può essere il nemico da cui difendersi. Non è possibile in ambito locale attivare dinamiche di antagonismo tra i diversi attori in un settore come questo. E’ assurdo trattare con i centri sociali usando il manganello. Se si è degli incapaci, nonostante si è stati eletti dal popolo alla carica più alta della città, bisognerebbe avere l’accortezza di tacere o lasciar fare a chi in qualche modo ha dedicato la sua vita al funzionamento di iniziative e progetti in tale ambito. Invece no, si è preferito il polso duro con alcuni e la viscida delazione e connivenza con le forze dell’ordine per annullare in pochi minuti esperienze irripetibili.
Livello 57 chiuso per spaccio. Link Project chiuso per spaccio. Nel primo caso l’accerchiamento che il centro sociale ha subìto è stato vergognoso. Come da copione, si presenta l’esercito all’improvviso e attiva lo sgombero, facendo in modo che il loro avvocato, presente in loco, venisse arrestato per possesso di stupefacenti ritrovati sul pavimento sotto la sua finestra. Neanche la fantasia di Andrea Pazienza è riuscita a dipingere una situazione così imbarazzante di fronte agli occhi di tutti. Nel secondo caso, durante un inizio serata, con pochissime persone presenti, un giovane si sente male. In ospedale gli verrà estorta una confessione di acquisto all’interno del Link Project di sostanze stupefacenti non identificate. Risultato: fine dell’esperienza Link.
Per la memoria collettiva è giusto ricordare anche l’esperienza unica del periferico Ca.Cu.Bo., ovvero una serie di impianti di refrigerazione industriale inutilizzati da tempo, che settimanalmente venivano adibiti a location per un evento che coinvolgeva migliaia di giovani. Anche lì scattarono i sigilli a causa di una ragazza che si sentì male “per aver bevuto da una bottiglietta trovata lì per caso”. Un luogo che per mesi è riuscito a costruire un network nazionale che vedeva arrivare in città frotte di persone per partecipare a quell’esperienza, è stato demolito affinchè non potesse più essere riutilizzato. Pur di evitare di occuparmi ancora di questo luogo, lo demolisco. Diabolico direi.
Questa la lungimiranza e l’approccio degli ultimi anni di amministrazione pubblica locale. Questa la famosa intelligenza, tolleranza e apertura della rossa Emilia. Di rosso, secondo me, a questo sindaco uscente sono rimaste solo le mutandine che indossa a capodanno, sperando che lo festeggi poco rumorosamente, con poco alcol e a letto presto come il suo pargolo.
Il coraggio di tenersi la delega alle politiche giovanili, tra l’altro denominata “Pace e politiche giovanili” affinché la presa in giro diventasse totale, sarà materia di studio psicanalitico nei prossimi tempi: infondo l’irrisolto problema del padre/padrone in quale altro ambito andrebbe risolto?
E’ nauseante ricordare ogni volta che i giovani sono il futuro, che i giovani rappresentano l’investimento più significativo che si possa fare, che i giovani sono gli eredi di ciò che è stata la nostra idea di società. Per questo i giovani devono avere la possibilità di creare, sperimentare, confrontarsi, osare, disobbedire, costruire. Per fare tutto questo c’è bisogno di spazio. Fisico e mentale. In entrambe le declinazioni lo spazio è stato arginato, laddove non disintegrato. L’amministrazione pubblica non può nascondersi dietro il dito mozzato della mancanza di fondi, perché per molte azioni non c’è bisogno di denaro. E l’amministrazione non può nemmeno continuare a progettare senza il coinvolgimento diretto di esperienze giovanili significative.
Vivere la città come organismo è quello che mi hanno insegnato da quando ho iniziato le elementari in Emilia. Ad esempio è da sconsiderati non tener presente che alla chiusura di grandi e coinvolgenti spazi come quelli che ho citato prima, non corrisponda una reazione in città tale da mettere a disagio la gestione degli spazi rimanenti. Cito l’esempio del Cassero – gay lesbian center – il quale in poco tempo si è ritrovato, durante l’amministrazione Cofferati, ad essere l’unico spazio sociale aperto dentro le mura. E quindi a diventare punto di riferimento per chiunque, ovvero anche per quelle persone che non hanno scelto di andarci, ma ci vanno per via dell’effetto oasi nel deserto. Questo ha creato notevoli disagi al Cassero, in termini di gestione della sicurezza, di accoglienza di un pubblico privo di rispetto nei confronti delle persone omosessuali, e soprattutto di totale assenza delle istituzioni su questo fronte. L’unica figura pubblica con cui il Cassero si è ritrovato a fare i conti regolarmente è il gendarme di turno che arriva a comunicare che c’è troppa gente o troppo casino. Fine. Secondo la logica cittadina di gestione degli spazi sociali potremmo aspettare la fine dell’esperienza Cassero al primo utilizzo esagerato di droghe del primo arrivato. E ventisette anni di esperienza collettiva vanno a farsi friggere. Vogliamo parlare poi delle persone che si riversano al Pratello? Dove pensano possano andare i giovani, anche solo a bighellonare (perché i posti attrezzati a fare dell’altro sono stati addirittura demoliti)? Troppo vociare, troppe bottiglie rotte, troppa droga. I proprietari delle case acquistate anni fa con due lire, ora si sentono cittadini promossi ad un buon livello di borghesia rispettabile, quindi la zona dedita storicamente al trascorrere tempo per strada diventa la zona in cui bisogna rispettare il riposo degli altri. Chi ha assecondato questa trasformazione di quella via? Con quale idea organica della città?
C’è un problema di fondo, e coincide con il saper leggere le esigenze di un’intera generazione. Trovo scandalosa la distanza che c’è tra il linguaggio della politica e quello delle nuove generazioni. Il divario è talmente grande che l’unica cosa significativa che l’amministrazione locale riesce a fare è delegare all’Università l’analisi di questo stesso divario. Se uno spazio aggregativo contiene al suo interno nuovi linguaggi e il suo interlocutore col manganello non li capisce, il finale è prevedibile. Se i giovani vanno indirizzati verso percorsi sani, quali sono gli strumenti messi in campo per comunicare con loro? Il signor Giuseppe Paruolo, assessore alla sanità e alla comunicazione, è riuscito a spendere denaro pubblico per una campagna (nel mese di agosto) sulla prevenzione hiv, che consisteva in un manifesto che riportava un preservativo in una scatola poggiato su una spiaggia con la scritta proteggetevi. Evitando accuratamente l’utilizzo esplicito della parola “preservativo”, nonostante le associazioni con cui si era consultato premessero per un messaggio più diretto. Risultato: qualche giorno in una città vuota, un manifesto, che doveva parlare soprattutto ai giovani, si è confuso tra le pubblicità delle creme abbronzanti. Intanto il 25 maggio 2009, sul fronte accademico, sarà l’Università di Modena e di Reggio Emilia a interrogarsi sul rapporto tra “Danza, Neuroscienze, transmedialità”. Il buon senso consiglierebbe all’amministrazione locale una via di mezzo tra questi due modi pubblici di parlare ai giovani. Ricordiamoci che i giovani sono in grado di sviluppare idee e mettere in piedi progetti concreti capaci di scardinare il normale corso della nostra confortevole, levigata, ragionevole, democratica non-società.


Questa sera si terrà al Cassero – gay lesbian center – un incontro politico speciale: quattro dei numerosi candidati lgbt presenti nelle varie liste del prossimo election day (amministrative ed europee) si mettono a confronto sui temi e programmi che li riguardano. L’incontro sarà moderato da Franco Grillini, il quale essendo stavolta fuori dai giochi elettorali sfodererà la sua pungente curiosità nelle vesti di direttore di gaynews. La stampa locale oggi non si è degnata di riportare l’appuntamento nemmeno tra le righe dedicate all’agenda cittadina. Sono riusciti a pubblicare di tutto. E riguardo i candidati sindaci riescono a costruire notizie di apertura in prima pagina anche con vere e proprie non-notizie, come ad esempio oggi il fatto che Guazzaloca per distrazione non si è aggiudicato tutti gli spazi pubblicitari che poteva ottenere e dovrà quindi accontentarsi della metà. Machissenefrega. Ma sappiamo bene che l’omosessuale fa notizia solo quando riesce a scatenare la pruderie nazionalpopolare sempre pronta ad entrare in azione alla vista di un trucco eccessivo, di un tacco, di una coscia o di ambigue e patinate immagini che sono “quelli lì” possono arrivare a concepire. All’interno di un quotidiano locale che importanza possono avere un Sergio Lo Giudice, una Cathy La Torre, un Maurizio Cecconi e il sottoscritto (Bruno Pompa) intervistati da un Franco Grillini? Probabilmente gli omosessuali che parlano tra loro è meglio che resti un evento a porte chiuse. La vera notizia oggi la dà il Sole 24 Ore: Fini incontra le associazioni gay nazionali, perché ha deciso che oltre a essere diventato partigiano, laico, femminista, multirazziale, ora è il momento di diventare il paladino dei diritti civili e quindi confezionare sta benedetta legge sulle unioni civili che nessuno al governo finora è stato in grado di far approvare. Eh si, i tempi cambiano. Gli operai votano a destra, il perbenismo si è impadronito della sinistra (paralizzandola) e i mass media ormai riescono solo a vedere il sensazionale, il sopra le righe e la quotidiana stravaganza della battuta del giorno. Le analisi, quelle vere e tediose, vanno relegate sulla stampa specializzata. E l’incontro di stasera si preannuncia carico di tedio e specializzazione, stando al trattamento che ci hanno riservato i giornali. Non sarà certo un tracollo economico per questi quotidiani, ma da oggi leggerò solo testate che non hanno la cronaca locale. Un lettore rompicoglioni in meno non può che far bene al sistema dell’informazione da queste parti. Il voto dei gay e delle lesbiche in questa città non si forma certo su quelle pagine, cariche di indicazioni politiche esplicite, di slogan che inneggiano all’ultimo sondaggio, di notizie cariche di insulti-scazzottate-violenze (l’arena politica degna di nota ormai passa anche da queste manifestazioni di banale demenza). I gay e le lesbiche forse non hanno alcuna rilevanza politica, ma restano una minoranza attiva, capace di individuare nella società odierna ricette in grado di migliorare la convivenza civile. Forse siamo così demodé, e lo siamo a tal punto da dover continuare a raccontarcele da soli in privato certe cose. Il pubblico ha bisogno di altro: veline, lasagne, cartelle cliniche di candidati, numeri, grafici, marci e bboni.
“Il nostro programma è all’insegna dell’ovvio: vogliamo pensioni piu’ alte per i nostri anziani e un futuro migliore per i nostri bambini. Chi vorrebbe il contrario?” recitava così Alessandro Fullin in un comizio spettacolo scritto per The Italian Miss Alternative. Ora che c’è Fini a darci le unioni civili e ora che tutti i media recitano lo stesso mantra, attenderemo con ansia l’annuale occasione di travestitismo estremo per riavere quel riflettore pubblico che ci vuole animali da palcoscenico o militanti in provetta.

La registrazione dell’incontro sarà disponibile da domani sul podcast del Cassero. Buon ascolto.


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11Mag09

Chill out domenicale spulciando tra il materiale presente sulla mia scrivania.

Il numero di maggio della rivista musicale tedesca Groove. Non parlo tedesco, l’ho presa solo per il cd allegato. Ottima selezione musicale al prezzo (rivista inclusa) di 3,90 euro. In Germania sanno cos’è una politica dei prezzi per favorire il mercato e disincentivare la pirateria. Qui i nostri addetti ai lavori sanno solo aprire la bocca per prendere aria, sostenendo demagogiche strategie, infarcite di stronzate legate alla pedofilia. Infondo, l’effetto velina-bionda-che-non-vuol-dir-nulla da qualche parte doveva farsi sentire. Se avete amici che tornano dalla Germania, vi consiglio di commissionare l’acquisto. Non ve ne pentirete.

Il Corriere della Sera ha confezionato un prodotto editoriale in vendita in allegato al quotidiano ogni martedì. Si tratta delle Fiabe Sonore. Un tuffo nella memoria collettiva infantile. Le fiabe che ci hanno insegnato e raccontato il mondo per la prima volta. Sempre uguali. Dove il bene e il male sono distinti nettamente. Capaci di rassicurare la confusione di qualsiasi bambino, che le ascolta e le riascolta. Un rito orale che ci ha insegnato a prestare attenzione ad una complessa casistica e che dovrebbe continuare ad essere tramandato nelle generazioni con massimo rispetto. La prima uscita è stata Il gatto con gli stivali, la storia di un anziano signore che lascia un mulino e un asino ai suoi primi due figli, e al terzo solo un gatto. “Tu caro mio, devi fare solo due cose, procurarmi un paio di stivali ed affidarti al mio ingegno, altro che fame! Fra tre mesi saremo a corte!”. A mille ce n’è. Ultima uscita il 20 ottobre.

La scorsa settimana a Berlino ho fatto un salto nella mia libreria preferita; è difficile stabilire un primato del genere in una capitale ricchissima di offerte per gli amanti dell’editoria in genere. Ma questa libreria ha qualcosa di speciale, sarà l’atmosfera, l’attenzione ai temi contemporanei, il saper dosare perfettamente i topic che frequento di più. Non so dirlo esattamente. Comunque ho acquistato due riviste a tematiche omosessuali. La prima è la quinta uscita di “They Shoot Homos. Don’t They?”, questo è il titolo della rivista. Ed è un monografico dedicato ad artisti omosessuali sieropositivi. Una carrellata di articoli, interviste e foto di opere e installazioni davvero impressionante nonostante siano solo un centinaio di pagine. La rivista include un cd audio confezionato ad hoc, contenente 16 brani musicali di musicisti gay, tutti concessi gratuitamente alla rivista per questa monotematica confezione. La seconda è il numero primavera / estate di “Fantastic Man“. I cultori di “Butt” sapranno che quegli snobissimi redattori producono anche questa rivista più patinata rivolta all’omosessuale in carriera o arrivato. Professionisti di ogni genere si susseguono negli articoli, che sembrano dei veri e propri redazionali di moda. Insomma, due prodotti editoriali che nel nostro panorama italiano non riusciamo nemmeno a concepire, figuriamoci a realizzare e distribuire.

In una busta traslucida che pubblicizza lo shopping museale è contenuta una nutrita rassegna stampa che io e il mio amico Vincenzo abbiamo selezionato a Perugia nei giorni del Festival del Giornalismo. Ogni mattina compravamo circa sei o sette quotidiani. Abbiamo imparato così a conoscere la stampa locale (che tra l’altro ha un prezzo di copertina inferiore all’euro nazionale per il fatto di essere una zona ex-terremotata). Non potendo descrivere ogni articolo per questioni di spazio, mi limiterò a fare un breve elenco e a rimettere tutto il malloppo nella busta, spedendolo a futura memoria: così almeno ricorderemo cosa c’è lì dentro.
Maurizio Costanzo che si indigna sull’ennesimo episodio di omofobia. Alessio De Giorgi che sostiene che il movimento gay dovrebbe essere politicamente più a 360°, ovvero aprirsi alla destra. Inserto del Riformistale nuove ragioni del Socialismo“. Una recensione di Michele Bellucci sull’arrivo a Perugia del dj Rampa direttamente da Berlino. Stefano Di Michele che parla di un ritorno della contestazione sottoforma di caccia al ricco, sulle pagine de Il Foglio. Gaia Cesare, sempre su Il Foglio, sostiene che la pornografia tra i rimborsi spese dei politici non aiuta certo a risollevare l’economia. Il Corriere dell’Umbria riesce a far passare la tragedia degli oltre 200 dispersi in mare come un successo “Nave italiana salva 350 naufraghi”. E nelle pagine interne il titolone è “Salvati dalle acque”. Il buffo di questo quotidiano è che riesce anche a raggiungere picchi di cronaca che solo in provincia sono possibili: “Trans tradito dalla fede” ovvero un transessuale ricercato si reca in pellegrinaggio a Santa Rita da Cascia e viene riconosciuto e arrestato. Repubblica intanto dedica una pagina a una cubista diventata suora, e che continua a ballare insegnando danza contemporanea. Sempre da Repubblica un pessimo esempio di giornalismo che punta al sensazionalismo razzista: il caso del bus per soli immigrati di Foggia. Donald Sassoon in un’intervista all’Unità sostiene che la crisi riporterà xenofobi ed estremisti in scena. Repubblica e Corriere riportano una cronaca dell’elezione di Gustavo Raffi a Gran Maestro della massoneria. Ci siamo incuriositi a questo fatto, perché non si è capito come, ma il suo nome era legato al Gay Pride. Indagheremo. Corriere dell’Umbria e Libero per simil vocazione danno risalto alla notizia relativa all’evoluzione delle corna, ovvero che un coniuge su due tradisce e sempre più spesso con omosessuali. Peccato poi che la percentuale di questi tradimenti gay che fanno notizia si assestino solo intorno al 7%. La Stampa recensisce un pamphlet di Paolo Fores D’Arcais, ovviamente contro la Chiesa. Il massimo invece appare in prima pagina sul Corriere: un’analisi delle gaffe e delle battute del nano di Arcore interpretati da Francesco Verderami come strategia premeditata dai suoi spin doctor; sentire i retroscena delle sue posizioni da un’amica che lavora nella stessa redazione è davvero esilarante. Il festival di giornalismo è anche questo. Un Beppe Severgnini che recensisce una collana in allegato al Corriere sulle città d’arte, incitando al microturismo. E L’Unità che punta a una conversazione con Giorgio Bocca sulla carta stampata in crisi. Il Giornale punta invece su una delle migliori veline della politica, Gabriella Carlucci, che stavolta ci intrattiene con una proposta di legge sul teatro. Valentino Parlato in prima pagina sul Manifesto ci ricorda che il capitalismo fatto di padroni invisibili è un segno di indebolimento del sistema; infatti la rabbia si sta scatenando contro i manager. Sempre sul Manifesto un’intervista a Armand Mattelart sulla società del controllo e della sorveglianza.  Dalle pagine riservate alla cultura di Repubblica Luce Irigaray analizza il diffuso sentimento di paura nella società contemporanea. Infine Aurelio Mancuso, presidente nazionale di Arcigay, rilascia un’intervista a Il Giornale come reazione e risposta alla vicenda che ho già trattato qui. Insomma abbiamo trascorso quei cinque giorni a Perugia trasformando la nostra stanza in albergo in una piccola emeroteca (ho tralasciato l’elenco dei numerosi mensili e settimanali di cui ci siamo ingolfati). Quanto meno siamo riusciti a mantenere informati gli addetti alle pulizie di quel jazz hotel.

Si è fatto tardi, continuerò a mettere in ordine un’altra volta.


CANDIDATURA

20Apr09

E’ la prima volta che mi candido. O meglio, che lo faccio a livello istituzionale, con tutte le formalità del caso e in riferimento ad una cittadinanza così allargata. Finora le mie esperienze di candidatura sono state quelle durante gli anni del liceo, per il consiglio d’Istituto, e quelle all’interno del Cassero, per il consiglio direttivo del circolo.
A scuola, ricordo che la prima prima volta fu davvero precoce, frequentavo il secondo anno di liceo scientifico, e la prof di latino apprese della mia candidatura dai manifesti appesi nei corridoi. Entrò in classe e mi fece avvicinare alla cattedra. Iniziò la sua lezione spiegando che nell’antica Roma i candidati alle elezioni si presentavano vestiti con una lunga toga bianca (candeo = biancheggiante, candido), più bianca di tutte quelle che circolavano in città, per distinguersi e farsi riconoscere in quanto tale. Fu una lezione che non dimenticherò, ma che non ho mai applicato alla lettera.
Lo scenario contemporaneo delle elezioni politiche, amministrative ed europee non contempla questo livello di comunicazione. Oggi si tende a comunicare attraverso tutti i media a disposizione, cercando di rispettare la par condicio. E così la distinzione tra uomo comune e uomo candidato sta solo nella presenza del proprio faccione su stampe e schermi.
Certo, andare in giro per la città di bianco vestiti sarebbe stato più divertente, e avrebbe dato la possibilità a tutto il popolo di avvistare e avvicinare i candidati. La politica vis a vis avrebbe comunque comportato una serie di scorrettezze, prima tra tutte quella di ingozzare il pubblico investendo in pranzi e cene luculliane: lo svantaggio della vecchia democrazia più diretta pare sia stato appunto quello di avvantaggiare i candidati ricchi.
Che orrore! Molto meglio la mediatica democrazia odierna!

Tra qualche giorno metterò online il mio sito elettorale, sperando che l’approccio offerto dalla rete risulti davvero la nuova frontiera democratica e egualitaria. (Digital Divide a parte)


[lancio di agenzia passatomi poco fa da un’amica giornalista]:


(DIRE) Bologna, 15 apr. – Una situazione di “violenza visiva
anche sui minori”. Con queste parole Maria Cristina Marri,
consigliera comunale della Tua Bologna e segretario provinciale
dell’Udc, denuncia oggi in Consiglio comunale a Bologna un caso
di prostituzione omosessuale al Navile. In via Faccioli e in via
Guarducci, spiega Marri, diversi cittadini hanno segnalato
un’attivita’ di “prostituzione omosessuale, anche in pieno
giorno. E’ una situazione inaccettabile- protesta in aula Marri-
perche’ visibile a qualsiasi ora del giorno e da qualsiasi
persona. E’ una violenza visiva, anche sui minori”. Dopo aver
segnalato il caso in Consiglio comunale, aggiunge Marri,
“informero’ gli assessori competenti del Comune e chiedero’
l’intervento di Questura e Prefettura”.

18:11 15-04-09

Credo che Maria Cristina Marri abbia passeggiato poco lungo quelle vie. Io le ho percorse in lungo e in largo, e ho potuto scambiare qualche saluto con amici incontrati per caso. Con alcuni mi sono anche fermato a bere un caffè. Eppure, nonostante io sia dichiaratamente gay, nessuno di loro mi ha fatto proposte di carattere economico. Le persone omosessuali hanno sviluppato nei millenni un’attitudine affinché sia possibile incontrarsi e riconoscersi in qualsiasi posto, metropolitano o provinciale. In alcuni casi, per tradizione, esistono luoghi appartati in cui incontrarsi, così come esistono analoghi luoghi specializzati nello scambio di coppie eterosessuali; ma tutto questo avviene lontano dagli occhi sia della consigliera Marri che dei suoi bambini. Non si tratta di prostituzione. E laddove dovessero esserci scambi di denaro nei rapporti interpersonali in corso, non capisco come tutto questo possa turbare il “buon costume”: sfido chiunque a parlare di decoro, indecenza o di oscenità nei luoghi in cui le persone omosessuali si incontrano. Le affermazioni diffamanti della Marri riconducono inevitabilmente alla morbosità propria della cultura politica cui appartiene, capace di affrontare la questione solo con precetti e imperativi come quello di far dormire i propri figli con le mani fuori dalle lenzuola per evitare il contatto col proprio sesso. Se la Marri vuole conoscere meglio il mercato dello scambio di sesso omosessuale per soldi, ha sbagliato indirizzo. Ma se non riuscisse a frenare la morbosa curiosità, sarò lieto di indicarle anche i luoghi più reconditi dove bravi padri di famiglia sono soliti consumare il proprio vizio lontano da sguardi indiscreti. Quello che accade alla luce del sole non puo’ essere ricacciato nell’ombra per puro bigottismo. La Marri se ne faccia una ragione.

Bruno Pompa


AFFARI TUOI

27Mar09

Da qualche settimana ho deciso di seguire con attenzione la stampa italiana di destra. Si, quella stampa che solitamente si snobba come un caffè fatto male, oppure come un fastidioso viaggiatore con cui dividere lo stesso scompartimento. Ho deciso insomma di accontentarmi di altri sapori e di incuriosirmi a quelle argomentazioni capaci di fidelizzare molti lettori di questa italietta. Tra le varie testate ho iniziato ad acquistare tutti i giorni Il Giornale, e cerco di stare appresso anche agli aggiornamenti online attraverso i suoi RSS. A parte qualche appunto sulla nuova veste grafica della versione cartacea, che preferivo classica e austera com’è sempre stata, devo ammettere che alcune inchieste e gli svariati spunti che offrono le pagine culturali non mi hanno mai fatto rimpiangere finora l’euro investito. Conservando ritagli e salvando articoli in digitale, ho potuto constatare facilmente che un leitmotiv è sicuramente l’annichilimento sistematico dell’associazionismo italico, e in particolar modo di quello di sinistra. D’altronde cosa aspettarsi da un organo di informazione che nel suo colophon riporta Paolo Berlusconi, Luna Berlusconi e Alessia Berlusconi come vertici della gerenza? Ma nelle ultime ore le mie forbici si sono imbattute in un’intervista a Daniele Nardini sul bilancio consuntivo di Arcigay del 2008. Un argomento abbastanza tecnico, e soprattutto che mi aspetterei di trovare su una mailing list interna all’associazione, come di solito accade in questi casi, affinché il dibattito possa soddisfare le curiosità più sfrenate e i dirigenti possano essere interrogati su metodi e prassi poco accette. Leggo l’intervista e mi rendo conto che porta la firma di Paolo Beltramin, ovvero il nome più ricorrente della testata nel processo di annichilimento sistematico dell’associazionismo di sinistra. Di solito la firma la leggo prima di avventurarmi nel corpo degli articoli. Ma stavolta è stato irresistibile spulciare subito tra le risposte di un “Io, gay, vi racconto la casta Arcigay”. In un primo momento pensavo avessero ridato la parola a Povia. Peccato non si trattasse di questo. Mi son trovato per la prima volta di fronte alle parole del “direttore editoriale di gay.it”: un sito creato da militanti dell’Arcigay nel 1996, che ebbe la lungimiranza di concentrare in quel facile dominio, non una casta, ma un movimento. E che nel 2000 venne quotato in borsa, e nel 2001 si ritrovò a ospitare i banner per la campagna elettorale di Silvio Berlusconi. In seguito a queste scelte politiche molti circoli e realtà del movimento per i diritti civili salutarono elegantemente l’esperimento e si collocarono su altri server e indirizzi. Ricordo un intervento dell’allora presidente del Cassero di Bologna Samuele Cavadini che tentava preventivamente di esternare lo sdegno di fronte a tanta pochezza. Ghei punto it, come molti suoi interlocutori commerciali la scriverebbero, si ritrovò a vendere il corrispettivo di tette e culi del mondo gay. Forti di una collocazione dominante nel panorama dei media, che ti vuole prono ai suoi disegni politici e di comunicazione, i gestori del sito si trasformarono da elementi importanti per la crescita del movimento, a un misto di bottegai di riviera, ma titolari di un circolo Arcigay e di un grande sito quotato in borsa. Questo si che fu un fallimento per il movimento gay. Quando in Parlamento i partiti ti concedono un solo seggio, che porta il nome di Franco Grillini, non possiamo lamentarci del fatto che lui poi non sia riuscito a portare a casa nulla, quando il portale-super-strafigo-di-sta-minchia punta a raccattare click mettendo in prima pagina il sondaggio “quanto ce l’hai lungo?”. Eppure sembra che la direzione editoriale di seconda generazione sia pronta a denunciare con un dossier e con un’intervista tutti i fallimenti di un’associazione, che in sintesi si riducono a una partita sfigata di Affari Tuoi (per i profani, il gioco dei pacchi su raiuno). Se vogliamo parlare di efficacia delle politiche per il riconoscimento dei diritti civili delle persone omosessuali, non possiamo farlo parlando dei rimborsi spese viaggio e hotel dei dirigenti di un’associazione, o meglio, lo si deve fare nei luoghi opportuni per la risoluzione di questo metodo gestionale, ma non certo utilizzando i media nazionali, mettendo in ridicolo, diffamando e dando giudizi da bar su un’associazione che conta al suo interno molte intelligenze, molti sforzi e molte speranze. Il panorama odierno è preoccupante, e su questo non voglio fare retorica, ma l’omofobia in cronaca e i preservativi in prima pagina li ho letti un po’ dappertutto. Dal direttore editoriale di un “grande” sito web mi aspetto idee, analisi appropriate, addirittura comparate con le esperienze di altri paesi. Mi aspetto un punto della situazione sulla questione comunicazione, e su come essa viene gestita all’interno di un movimento che ha come obiettivo il miglioramento delle condizioni di vita di milioni di persone. E invece no. Mi trovo di fronte alla pochezza di cui sopra. Ad un incuriosirsi a vicenda tra media votati alla cultura della fuffa. Infondo, diceva Brecht “quando la stupidità dilaga, diventa meno visibile”. Nel 2001 smisi di digitare gay.it. Mi è venuto molte volte lo scrupolo di aver preso una decisione troppo drastica. Oggi finalmente ho avuto la conferma di aver fatto una scelta giusta. Continuerò a seguire la sua voce sulle pagine de Il Giornale.